Ecco allora che scopre una terra, un luogo. Il senso di identità di Gissing non è il frutto della ipocrisia della terra dimenticata, della terra della povertà o della terra derelitta. Essa è il risultato di una volontà di riconoscere una identità abbandonandosi alla diversità dei luoghi e delle persone, all’originalità di un quotidiano cadenzato dalle stagioni e dal clima, dalle tradizioni popolari. Ovvero, un’identità che si abbandona al tempo, nello spazio diviso tra le contraddizioni storiche di una regione sfruttata dalle incapacità borboniche e conquistata dal razionalismo piemontese, ma che a lui sembrava non dominata negli animi e nei sentimenti. Eppure ciò che comprese Gissing non lo abbiamo mai compreso noi. Per anni. Per decenni. Adesso per un secolo.
Ciò che non abbiamo mai voluto intimamente capire è che la terra di Calabria nel modificare un senso del vivere riporta l’uomo alle ragioni della propria esistenza e delle proprie capacità. E, questo è, o dovrebbe essere un sentimento comune, una percezione di se stessi dalla quale non si sono affrancati i visitatori di ieri e di oggi, che accomuna il passato e il presente in chi si avventurava nelle terre del Sud. Oggi, Gissing ed altri nonostante, tra movimenti meridionalisti legati al luogo comune del sottosviluppo o troppo occupati a dimostrare che la dominazione borbonica nella sua improduttiva amministrazione fosse meglio dell’occupazione piemontese, gli intellettuali passionari dimenticano che artisti e scrittori anglosassoni, nell’Ottocento romantico, si affidavano al Mezzogiorno per guardare, Si!, ad un’Italia imperfetta, ma anche ad una esperienza storica capace nella sua imperfezione di offrire un’effervescenza di colori, di passioni e di emozioni che potessero stimolarne l’estro e far crescere i loro animi in un confronto con una realtà di vita genuinamente forte, priva delle conquiste del progresso magari, ma ispirata a rinnovare ogni animo con la propria forza di volontà affidandosi all’umiltà dell’adattamento.
Ci siamo così dimenticati che la Calabria alla fine, al di là della criminalizzazione utile per ogni copertina, è terra devotamente leale, accettata ed odiata forse, ma che si pone a metà strada di una storia millenaria di civiltà perdute. Civiltà ora affiorate dalla sabbia, ora testimoniate dai resti di antichi castelli che languono nell’abbandono irresponsabile o dalla sontuosità di quelle cattedrali della Fede delle origini, come nei riti di un cristianesimo popolare, a cui dovrebbe seguire una fede laica nel saper fare. Persasi nell’oscurantismo seicentesco di una storia ingenerosa, faticosamente ritrovata nella miopia postunitaria, la Calabria vive, ancora oggi, la propria identità divisa tra il senso di un’italica appartenenza e la consapevolezza di essere un laboratorio storico multietnico per eccellenza.
Ed ecco, allora, in risposta a chi ancora una volta gioca la carta del piangere sulle colpe altrui per affermare una colpa di Roma, che forse è utile ricordare che la Calabria, come il resto del Sud, non è altro che espressione di un’identità chiusasi nella sua subordinazione al fascino neofeudale del potere politico. Un fascino dal quale è urgente affrancarsi senza alibi, aprendo un confronto sulla volontà di condividere i destini tra uomini. Aprendo ad un umanesimo che non è solo umanitarismo politicamente corretto, ma un umanesimo semplice mai dimenticato nella storia di un’Italia sperata, ritrovata, forse non ancora così generosa con il suo Sud. Una volontà di condividere gioie e dolori senza scuse per non giustificare nella marginalità di una frontiera di un Occidente, oggi sempre più mediterraneo, quell’abbandono di quell’identità vera, onesta di una terra i cui responsabili alla fine saremmo ancora una volta solo e soltanto noi.