
Ma Tel Aviv non considerò nemmeno la risoluzione n. 242 del 1967 ( nota come “Terra in cambio di pace”) facendo si che il conflitto non avesse termine, che il fronte della violenza si allargasse e che anche coraggiosi leader arabi ed israeliani come Sadat e Rabin pagassero con la vita il prezzo di una intransigenza che è sempre stata più politica ed etnico-politica che non propriamente religiosa. Il mancato riconoscimento ad una nazione per il popolo palestinese, la cristallizzazione della catastrofe dei profughi dal 1948 in poi (nakba) non hanno fatto altro che offrire valide opportunità ad un radicalismo islamico che nella questione palestinese ha trovato utile motivo per contrapporre identità e violenza ad un Occidente ambiguo, incapace di andare oltre il limite delle ragioni economiche del momento. Dal 1948 in poi ciò che era stato creato fu soprattutto il frutto di un’idea coloniale ormai priva di realtà politica dovendosi affermare in piena epoca di decolonizzazione. Certo Israele si poneva allora, e si pone tutt’oggi, come uno Stato moderno, figlio di una visione occidentale della cultura politica europea ma non si presentava come una identità costituita da cittadini al di là della radice ebraica. Ovvero di destinatari di pari norme e diritti così come affermato nel pensiero illuminista del XVIII secolo. Ma non solo.
La storia del conflitto arabo-israeliano non è solo una storia militare. E’ un confronto che nasce dall’assenza di dialogo, da un senso e significato del termine cittadinanza che ognuno lo modella secondo le proprie finalità affermando la propria storia su quella altrui. Guardando alla questione palestinese può tornare utile riflettere sull’interrogativo di Hannah Arendt nel momento in cui essa si chiedeva se […] si ha il diritto ai diritti dell’uomo se non si è cittadini […]. E dovremmo chiederci, a questo punto, se tale considerazione può avere un suo particolare significato per cittadini mancati nella propria terra come per i palestinesi. Riscoprire la Arendt oggi significherebbe solo aprire ad una altra visione del rapporto tra popolo ebraico e popolo palestinese. Un rapporto che nella terra degli stessi Padri nessuno dovrebbe avere ragione di far retrocedere chiunque da cittadino a straniero. In questa miope e unilaterale visione geopolitica di una regione estremamente fragile, dall’invasione israeliena del 1982 del Libano e il trascinarsi all’interno della guerra civile libanese, la politica di Tel Aviv ha amplificato la reazione araba e palestinese non solo per i Territori Occupati ma perché, suo malgrado, ha permesso che lo scontro politico si spostasse sul piano religioso cambiando i termini e gli attori del confronto.
Per questo, il gesto di Papa Francesco, nella sua semplicità, assume un forte valore politico e dimostra una sottile capacità di analisi. Il Papa ha compreso che favorire e porsi dalla parte del popolo palestinese e del suo diritto al riconoscimento di una identità nazionale significa depotenziare e disancorare dal radicalismo religioso islamico una delle più insidiose cause delle crisi in Medio Oriente. Riconoscere la Palestina o, meglio, il diritto ad uno stato palestinese significa ristabilire un equilibrio storico e politico necessario prim’ancora che religioso. Significa sottrarre in Palestina come altrove nel mondo arabo, popoli esclusi dalle ricchezze e dalle possibilità di crescita, lasciati da soli a cedere alle lusinghe di chi, in nome di una Fede, persegue finalità di potere tutt’altro che espressioni di una volontà di un qualunque Dio.
Di muri ce ne sono tanti. In Europa un Muro è stato abbattuto mentre su un altro Muro si continua a piangere. E’ un Muro che non è solo a Gerusalemme. E’ un Muro che coinvolge ognuno di noi e sul quale il Papa cerca di non farci piangere.