L'Asia Centrale sembrava molto distante dal Medio Oriente e sembrava altrettanto un'area non dotata di una contiguità geopolitica con l'Oriente a noi prossimo pensando, noi occidentali, che fosse un prodotto politico di una visione subregionale delle relazioni internazionali post-coloniali in un'ottica imperiale fra subcontinente indiano, Pakistan islamico e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
In realtà il gioco strategico riprende la sua corsa favorito non solo dall'implosione dell'impero sovietico ma dalla forte spinta economica a gestire le risorse di gas naturale e di petrolio presenti nell'area transcaspica e transcaucasica in ragione di un'alternativa altrettanto strategica all'offerta araba. Inserirsi nel gioco asiatico ha una duplice rilevanza strategica. La prima contenere direttamente la capacità di proiezione della Cina nella sua prossimità allo scenario indiano prossima alla sete di energia dovuta alla crescita progressiva del sistema economico-industriale di Pechino.
La seconda è rappresentata dall'offerta energetica il cui dominio su territorio neutro, ovvero non arabo, permette all'Occidente, ed agli Stati Uniti in particolare, di poter evitare qualunque tentativo di ricatto energetico, qualunque possibilità di uno shortage drammatico vissuto per effetto di una leadership fondamentalista che attraversa l'Oriente medio-centrale con la complicità dell'Iran. Il conflitto in Afghanistan ha aperto, in altre parole, una nuova dimensione geopolitica della regione dove l'effetto domino creatosi, sino alla guerra contro Saddam Hussein, non esaurirà a breve i suoi effetti. La lealtà di Islamabad, di Rijadh sono state messe a dura prova dal gioco delle parti scatenatosi dopo l'undici settembre e la sensibilità statunitense di dover contare sul gradimento di quello o di quell'altro regime non sembra una scelta senza problemi in futuro.
La scelta del Tagikistan quale spazio logistico, la paura dell'Iran della sua prossimità turca e il dubbio statunitense sulla difendibilità di una leadership quale rendita geopolitica di un sistema che ha retto alla Guerra Fredda, l'inaffidabilità saudita, la timidezza apparente della Siria sottendono un'unità di intenti che ancorchè non espressa magari, diventa fattore di potenza indiretto a favore degli Stati islamici, oltre ogni aspettativa.
Il pantano iracheno è solo un momento, un punto di arrivo di un caos preordinato e preconfezionato da parte di chi conoscetene il potere della frammentazione delle comunità e del nemico e lo stillicidio di uomini conferma la potenzialità offensiva di un movimento antagonista fondamentalista che si articola su base transnazionale. Per far questo non è stato sufficiente soltanto una dichiarazione di guerra verso un nemico in contumacia. L'Afghanistan rappresenta ancora oggi l'anello debole del sistema euro-asiatico.
Esautorati i mujaheddin, il potere è passato ai talebani ed esautorati anche questi la possibilità di un'intesa con Islambad diventa possibile solo di fronte alla volontà di mantenere un equilibrio nella regione che coinvolga il subcontinente indiano, evitando slanci in avanti di Stati non occidentali. Ma la prossimità con il Pakistan, infatti, determina uno spostamento di opportunità. Uno shift interessante se si pensa alla tutela accordata dal regime di Islamabad a Kabul prima dell'undici settembre. Così, in verità, osserviamo che al gioco del …Grande Gioco i concorrenti sono aumentati.
Nel sistema coloniale ottocentesco non vi erano Stati capaci di competere in termini concorrenziali con le potenze coloniali. Le regole dei clan e la polverizzazione delle comunità locali su ampi spazi prive di un raccordo politico che le associasse hanno lasciato campo aperto alla corsa al dominio delle risorse da parte delle potenze europee e degli Stati Uniti. Con la decolonizzazione e la creazione dei primi Stati indipendenti, veri o eufemisticamente tali, il Grande Gioco viene ad essere giocato secondo le regole della polarizzazione fra Est e Ovest determinando un capovolgimento indiretto dei termini relazionali ora a favore dell'uno ora a favore dell'altra grande potenza: Afghanistan e Azerbaigian in particolare ad esempio.
La fine della Guerra Fredda sorprende un po'tutti. Una guerra senza nè vinti nè vincitori ha determinato nella fine della polarizzazione una diffusione di potenza e, quindi, una ridistribuzione del potere fra le comunità orientando verso un'autonomia, democratica o meno, gli Stati della già Asia Centrale ma oggi dell'estremo …Medio Oriente. Cioè, aumentano i concorrenti. Non solo. Ma stranamente, e storicamente coerentemente, i paesi arabi produttori di petrolio non sono riformisti. Anzi, fondano la loro legittimazione al potere su una società fortemente strutturata le cui regole sono indicate direttamente dal Corano. Il regime talebano di Kabul era tutt'altro che riformista.
La prossimità wahhabita è stata ed è, un fattore di aggregazione e la necessità di impedire la realizzazione dell'oleodotto di Kandahar, che di fatto escluderebbe il Golfo Persico quale area di interesse strategico-economico, la naturale conseguenza che non affranca la'Arabia Saudita dall'essere un altro dei giocatori. La realizzazione di un oleodotto può sembrare irrilevante. Al contrario può rappresentare un fattore strategico non indifferente se se ne valuta il controllo e si da un'occhiata al tracciato. In realtà la volontà occidentale, dopo la fine dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan, era quella di realizzare un oleodotto che portasse il greggio dal Mare arabico passando per il Pakistan e per il Turkmensitan per poi raccordarsi con l'oleodotto dell'Azerbaigian attraversando la Georgia, e giungendo in Armenia.
Il gioco si allarga e l'Arabia saudita, infatti, nel finanziare le frange wahhabite più ortodosse non vuole tale oleodotto, e se ne comprende il perchè. Il Grande Gioco dimostra anche la partecipazione di concorrenti eterogenei seppur vicini nell'unicità di Fede. Così, l'Iran e la Turchia, islamiche entrambe. La Siria che gioca la carta laica alla ricerca di una stabilizzazione regionale e l'Egitto che si rende artefice di se stesso di fronte alla solitudine di Mubarak e all'incertezza del dopo di fronte all'imprevedibilità dello spostamento del potere. In questo senso, nazionalizzati o meno, si osserva una riedizione autoctona di un imperialismo panarabo dove all'utopia ancestrale del movimento si sostituisce l'azione politica di un Islam trasversale capace di mettere insieme categorie e correnti diverse dello stesso credo in ragione di uno scopo ultimo e supremo. E, paradossalmente, pur supponendo che ground zero non si fosse verificato, è nel grande gioco di un Medio Oriente prossimo o allargato che gli Stati Uniti si sono trovati spiazzati da un gioco a due carte la cui vittima precedente è stata proprio Mosca.
E così, in questo grande gioco si presenta il primo limite geopolitico alla stabilizzazione della regione e il primo obiettivo da conseguire: la difficoltà della gentes araba a stabilire una serie di relazioni paritarie e durature fra gli Stati in chiave di un'identità nazionale esprimibile attraverso un senso dell'appartenenza che non si blocchi alla formalizzazione istituzionale ma che riesca a mettere in condominio interessi comuni e obiettivi altrettanto condivisi. In questo senso la strategia di al-Qaeda sembra riconoscerne la fondatezza dell'osservazione ma ne sfrutta le debolezze del sistema per impedirne la transizione democratica e creare una linea unica di condivisione di valori tradizionalmente arabo-islamici in chiave teocratica ed autoritaria capovolgendo i ruoli nel potere ma sostituendo alla autocrazia un'altra autocrazia, utopistica se si vuole, ma non democratico-rappresentativa fondata sul radicalismo religioso.
Riproponendo una datata analisi storica l'affermazione che “…Il problema di una politica unitaria araba proporzionata nei fini e realistica nei mezzi non si potrà mai porre con fondata prospettiva di essere risolto fino a quando non sarà trovato un assestamento territoriale e costituzionale dell'area araba…”[1] non perde di efficacia ma stabilizza un convincimento occidentale, che fu anche di sir Lawrence, al quale l'Occidente molto spesso non ha posto l'attenzione dovuta. Non solo. Ma ciò che si osserva e spiega il gioco più ampio è che la politica araba e dei paesi islamici del Medio Oriente, prossimo o allargato che sia, è che la politica delle nazioni è dominata da un angolo visuale estremamente limitato all'interno della propria base di legittimazione del potere. La stessa base che, comunque, ha lasciato Saddam Hussein al potere sino a qualche mese fa: quella islamica della migliore oligarchia sunnita.
Riproponendo una datata analisi storica l'affermazione che “…Il problema di una politica unitaria araba proporzionata nei fini e realistica nei mezzi non si potrà mai porre con fondata prospettiva di essere risolto fino a quando non sarà trovato un assestamento territoriale e costituzionale dell'area araba…”[1] non perde di efficacia ma stabilizza un convincimento occidentale, che fu anche di sir Lawrence, al quale l'Occidente molto spesso non ha posto l'attenzione dovuta. Non solo. Ma ciò che si osserva e spiega il gioco più ampio è che la politica araba e dei paesi islamici del Medio Oriente, prossimo o allargato che sia, è che la politica delle nazioni è dominata da un angolo visuale estremamente limitato all'interno della propria base di legittimazione del potere. La stessa base che, comunque, ha lasciato Saddam Hussein al potere sino a qualche mese fa: quella islamica della migliore oligarchia sunnita.
Il secondo limite alla stabilità dell'area è dato dalla conflittualità fra israeliani e palestinesi. Un confronto strumentale alle finalità di una garanzia araba al futuro della Palestina ma anche la paura di una nascita di un neo stato democratico che distruggerebbe il gioco delle autocrazie, laiche o monarchiche che siano.
Il terzo limite alla stabilità è rappresentato dal petrolio. Il petrolio diventa, in sostanza, il fattore critico delle relazioni d'area e, in un'ottica di depolarizzazione, la consapevolezza della ricchezza aumenta proprio i concorrenti nel Grande Gioco. Ma la variabile petrolio definisce non solo le possibilità economiche dello Stato produttore, ne diventa l'arma strategica migliore per ridurre allo stress energetico il resto del mondo. Per questo, in sostanza, stabilizzazione in Medio Oriente attraverso la road map e proiezione in Afghanistan, normalizzazione dell'Iraq, fanno si che ancora una volta l'Occidente gioca nel …Grande Gioco. Sia l'Occidente, e con questo gli Stati Uniti, sono consapevoli della necessità della via afghana al petrolio.
La paura di non riuscire a gestire il Medio Oriente nel prossimo futuro ha aperto e accelerato, soprattutto dopo l'undici settembre. Ma nel mondo arabo dei regimi cosiddetti moderati si diffonde la percezione e la paura di non disporre di argomenti strategici capaci di imporre la propria volontà sull'Occidente in un futuro non tanto lontano al di là del petrolio da cui dipende la ricchezza delle oligarchie islamiche e la stabilità del potere. La prossimità ai mercati dell'Asia estremo-orientale e la consapevolezza della vantaggiosità verso gli investimenti e gli scambi in tale area rispetto a quella europea, hanno convinto Washington, quanto Mosca, a ridiscutere il proprio ruolo nella regione. Ma, l'importante, in un gioco che allarga la partecipazione a più concorrenti, è riuscire nel risultato conseguibile a non farne le spese.
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Il terzo limite alla stabilità è rappresentato dal petrolio. Il petrolio diventa, in sostanza, il fattore critico delle relazioni d'area e, in un'ottica di depolarizzazione, la consapevolezza della ricchezza aumenta proprio i concorrenti nel Grande Gioco. Ma la variabile petrolio definisce non solo le possibilità economiche dello Stato produttore, ne diventa l'arma strategica migliore per ridurre allo stress energetico il resto del mondo. Per questo, in sostanza, stabilizzazione in Medio Oriente attraverso la road map e proiezione in Afghanistan, normalizzazione dell'Iraq, fanno si che ancora una volta l'Occidente gioca nel …Grande Gioco. Sia l'Occidente, e con questo gli Stati Uniti, sono consapevoli della necessità della via afghana al petrolio.
La paura di non riuscire a gestire il Medio Oriente nel prossimo futuro ha aperto e accelerato, soprattutto dopo l'undici settembre. Ma nel mondo arabo dei regimi cosiddetti moderati si diffonde la percezione e la paura di non disporre di argomenti strategici capaci di imporre la propria volontà sull'Occidente in un futuro non tanto lontano al di là del petrolio da cui dipende la ricchezza delle oligarchie islamiche e la stabilità del potere. La prossimità ai mercati dell'Asia estremo-orientale e la consapevolezza della vantaggiosità verso gli investimenti e gli scambi in tale area rispetto a quella europea, hanno convinto Washington, quanto Mosca, a ridiscutere il proprio ruolo nella regione. Ma, l'importante, in un gioco che allarga la partecipazione a più concorrenti, è riuscire nel risultato conseguibile a non farne le spese.
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[1] Cfr. F. Cataluccio. La Questione d'Oriente: lotte di nazionalità e interessi di potenze (1815-1968) pag. 1526. In ed. Marzorati.