La strada verso una soluzione definitiva che si dovrà svolgere su un nuovo percorso, ma che avrà le stesse fermate di ieri, non rappresenta di per sé una vittoria politica dell’Occidente verso il Medio Oriente. La possibilità di pacificare e normalizzare il Libano e, con esso, il Medio Oriente non appartiene solo alla volontà dell’entourage statunitense o alle determinazioni del Dipartimento di Stato americano, né alla capacità diplomatica dell’Eliseo o agli inviti di un’Europa ancora politicamente a più voci e a più sentimenti. Dovrebbe essere l’obiettivo di una comunità internazionale che non si disperde nei lavori delle Nazioni Unite. Una comunità che sia veramente alla ricerca di una affermazione politica e giuridica, della democrazia e del diritto.
Anche in questi momenti di tragedia, di fronte ad un evidente, prevedibile quadro complessivo di una regione ostaggio dell’ombra lunga di Teheran, la proporzionalità della pace, rispetto ad una recrudescenza di un conflitto, è direttamente nelle mani degli arabi e di nessun altro. Quegli arabi che dividono il mondo fra un centro e una periferia, fra caos e legittimità del potere, autocratico o teocratico, ma sempre potere. Ancora oggi è il pantano iracheno sofferto dalle truppe della coalizione angloamericana che ha offerto la possibilità di ingaggiare l’Occidente su due fronti unendosi al conflitto in Libano. Due fronti nei quali i movimenti terroristici, l’abilità politica di Teheran e di Damasco, tendono a dimostrare l’evidente fallimento di una politica estera occidentale orientata a cambiare sistemi politici poco funzionali agli equilibri della regione senza un’analisi reale fatta a monte degli effetti, dei risultati.
Una guerra non afferma una pace. Meglio sarebbe stato disporre di regimi apprezzabilmente democratici in Arabia Saudita, Iran e Siria, in Palestina, oltre che in Iraq. Ma ciò avrebbe richiesto maggior impegno e volontà di confronto soprattutto nei Paesi arabi cosiddetti moderati. Così i vuoti di potere in Iraq e in Palestina rappresentano due risultati approssimativi conseguiti dall’Occidente sui quali si è costruita, giorno per giorno, l’egemonia politica e spirituale dell’Iran. Per questo, dopo la disponibilità di Sharon, la scelta di Olmert di difendere Israele è la risposta ad un’incapacità occidentale di giocare un ruolo determinante in Medio Oriente: ovvero all’incapacità di offrire i presupposti di democrazia e partecipazione per quelle comunità che negli Stati “amici” soffrono di una pericolosa esclusione, permettendo ad Hezbollah di crescere e di minare qualunque processo di pace. Per questo, una risoluzione che imponga un cessate il fuoco non rappresenterebbe altro che l’ennesimo congelamento della questione del riconoscimento arabo dello Stato di Israele.
Della costruzione di uno Stato palestinese, della capacità di arginare pericolose spinte in avanti di regimi che poco hanno a cuore l’evoluzione democratica della regione dovendone, nel caso ciò fosse possibile, pagare il prezzo di un’impossibile sopravvivenza. La prova politica di Hamas, e la formula operativa di Hezbollah, dimostrano quanto sia proprio l’aspetto interlocutorio dell’atteggiamento dei movimenti ad essere utilizzato per verificare le vere capacità politiche di dominare il sentimento palestinese funzionalmente ai disegni egemonici di Teheran, alla sopravvivenza del regime degli Assad, alla difesa dei regni hascemiti di Giordania e sauditi di Rijadh. Ma questo porsi a metà del confronto dialettico rappresenta anche la fragilità politica delle parti in gioco che l’Occidente non riesce a sfruttare. Così, ne accetta un’assenza di fiducia reciproca che mina qualunque tentativo di realizzare le basi di una minima coesistenza fra le comunità.
Di fronte a ciò una tregua, più tregue, un cessate il fuoco o una forza di interposizione diventano strumenti necessari e funzionali al consolidamento dell’azione politica di un Occidente che si nasconde dietro formule di apparente impegno ma di incapace iniziativa sul campo. E in tutto questo Teheran riformula la sua capacità di essere leader politico nella regione utilizzando lo sciismo come formula di attrazione di forze diverse per rendere instabile una regione e assumerne la direzionalità politica mentre l’Occidente insegue l’ennesimo falso scopo. Così, ancora una volta la scommessa che l’Occidente dovrebbe accettare rimane sempre la stessa: favorire, senza dirigerla, l’affermarsi di una coscienza democratica dei popoli in Medio Oriente. Se così non sarà, l’alternativa futura, anche di fronte ad uno schieramento multinazionale a garanzia di un cessate il fuoco, sarà una guerra sistematica, diffusa, non sempre a bassa intensità, e il confronto asimmetrico fra Israele e forze irregolari come Hezbollah resterà, per allora, un semplice, non felice, presupposto.