Di campagne promozionali dirette ad offrire un messaggio significativo se ne possono inventare tante. Costruire ed offrire in modo puntuale anche informazioni o suggerimenti che si riducono, poi, ad una proiezione di un’idea non espressa direttamente da chi dovrebbe farlo è altrettanto semplice quando si utilizzano immagini e abilità comunicative altrui. L’occasione di un confronto aperto tenutosi a Milano nei giorni scorsi sulla campagna fotografica di Oliviero Toscani ha rappresentato un’ulteriore conferma che, probabilmente, l’aggressività mediatica può pagare nella pubblicità di prodotti e nella promozione di beni materiali ma, difficilmente, può attribuire, seppur condivisa nelle intenzioni, un’idea positiva a chi cerca nella provocazione il momento utile a manifestare un’idea forte di reazione ad un dramma che si reitera nel tempo come la criminalità organizzata in Calabria.
Certo, usare le fotografie come veicolo per promuovere la Calabria quale strumento ritenuto più idoneo per sdrammatizzare, esorcizzare provocando, può essere semplice ed immediato soprattutto se si cerca di sovrapporre l’acqua e sapone dei nostri ragazzi alla violenza di un modello di società che non è stato scalfito ancora oggi da chi ha la responsabilità principale della gestione delle comunità: la politica locale nei suoi vari aspetti e nelle sue manifestazioni. La promozione così condotta, infatti, rischia di far cadere nell’errore comunicativo - se non proprio realizzare un effetto distorsivo della comunicazione e del messaggio che si vuole inviare - le stesse intenzioni del committente e di rendere vani i risultati che ci si aspettava.
In termini di comunicazione, insomma, una “comunicazione” aggressivamente languida, e non è una contraddizione, rischia di realizzare verso l’utente destinatario del messaggio un risultato di decodifica aberrante. Cioè, pone a rischio la stessa relazione tra significante e significato, mette in discussione - nel caso di sentimenti e di sensibilità del protagonista - la comunità in quanto tale rappresentata dai volti ingenui, dissolve ogni competenza comunicativa e crea confusione nella distinzione tra segnali e simboli che è determinante per raggiungere l’obiettivo di una comunicazione pienamente compresa. Ovviamente, per l’autore della campagna promozionale quest’ultima va al di là della provocazione pubblicitaria.
Essa mira a metter in primo piano “[…] la semplicità dei visi, la bellezza di ragazze che sono l’antitesi delle veline e delle modelle […]”. Significa “[…] partire dalla realtà, dare un’immagine di speranza e di futuro […]”. E sin qui non credo che si possa contraddire chi non nasconde il suo modo di fare promozione. Ciò che sorprende, però, è l’analisi degli effetti e le ragioni poste a premessa della campagna dalla committenza. Secondo un esponente di particolare rilievo istituzionale, la campagna “Gli ultimi saranno i primi” doveva servire, nella sua provocante dissacrazione della semplicità, a superare gli stereotipi […] che ci sono e che non sono governabili […]”.
In verità, un simile commento rappresenta un’affermazione scoraggiante in sé perché, senza ombre alcune, dimostra quanto una classe politica ultratrentennale, ed ancora in auge, non sia stata capace di affrancare proprio dagli stereotipi, creati con il contributo di molti, la nostra terra da una certa idea che si è affermata su di essa ormai da molto, troppo tempo. A chi ha affermato ciò è sfuggito che gli stereotipi sono, al contrario, come ogni idea umana, assolutamente gestibili e governabili se si è capaci di convincere il nostro interlocutore del contrario, soprattutto se lo si fa in prima persona.
Tutto questo - molto più responsabilmente e difficilmente di una semplice campagna fotografica - richiede, però, una classe politica dotata di concretezza, di cultura politica e di capacità comunicative. Una classe politica che avrebbe potuto sovvertire ogni luogo comune da tempo e senza grandi difficoltà: criminalità nonostante. Certo, come si evince in altri autorevoli contributi, “[…] è importante lavorare insieme per la Calabria, per ridare alla Calabria un’immagine coerente, che ne indichi anche l’ansia di riscatto e la voglia di uscire da luoghi comuni ingiusti e massificati […]”. A tali opinioni, rese disponibili sul web, un’altra carica istituzionale tende a giustificare la campagna promozionale “Gli ultimi saranno i primi” perché, secondo l’autorevole parere, questa “[…] rappresenta un messaggio evangelico ma è condizione terrena. L’impegno di Toscani […] continua il commento […] non è sull’immagine della Calabria, ma su quella dei calabresi. È un’operazione verità […]”. Si, è certamente un’operazione verità! Ma su quale verità, o per quali verità? La campagna fotografica punta “[…] sulla coscienza - forse era meglio aggiungere sulla consapevolezza - dei nostri limiti… lottando per presentare la nostra identità, la calabresità non come un disvalore […] perché […] fa più rumore l’albero che cade e brucia che un’intera foresta che cresce […]”.
Purtroppo tra pochi alberi caduti e una foresta che cresce da anni e che da anni si trasferisce in altre regioni ci saremmo aspettati maggior rumore di foglie e di rami e non semplici scoppiettii di piccoli, ma diffusi, incendi che non hanno modificato nulla negli assetti sociali e politici calabresi. Da sempre ognuno di noi, nel suo piccolo, senza gettare la spugna alla prima delusione e consapevole dall’immodificabilità dei ruoli, ha cercato di combattere per la propria terra.
Tuttavia, da tutto questo emergono, oggi, una serie di riflessioni per nulla scontate. Riflessioni che dimostrano quanto il risultato possibile della comunicazione così voluta non sia stato pienamente valutato. Anzitutto, nella campagna pubblicitaria non si parla di proposte per dare a questi ragazzi un futuro. Ragazzi che con i loro volti sorridenti chiedono proprio a chi ha commissionato la campagna promozionale, e non al resto del Paese, di riconoscerli come la parte migliore della nostra terra, illusa da sempre e pronta a sopravvivere alla prossima disillusione. Ragazzi che non chiedono di essere assolti da colpe che non hanno commesso, ma chiedono di essere valorizzati da una classe politica autoreferenziale e che non cede spazi.
Una classe politica che sopravvive, con le stesse mentalità, da decenni. Una classe politica la cui esperienza, maturata negli anni, non è stata assolutamente motivo di cambiamento. Da questo emerge quanto sia fin troppo facile affidarsi ad una campagna promozionale utilizzando i volti dei nostri ragazzi mentre rimane sempre più difficile per i nostri politici mettersi in gioco in prima persona, dimostrare di avere idee chiare, di essere capaci di promuovere la Calabria attraverso la propria immagine e il proprio saper fare. La comunicazione che serve, ed è questo che è mancato, è quella che si struttura nelle sue formule e nei suoi messaggi attraverso il coraggio e la responsabilità di presentare la regione in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno “comodi” da parte di chi governa.
Le foto di Oliviero Toscani non rappresentano nulla di concreto e non lasceranno nel tempo un segno tale da poter favorire la crescita morale di una terra, o mutare gli stereotipi non combattuti da chi, come in passato, ha ancora oggi il dovere di farlo. Luoghi comuni che non dovrebbero rigenerarsi in un clima di autorevolezza virtuale priva di ogni aderente credibilità nei fatti da parte di chi liberamente si è assunto l’impegno di guidare questa terra verso un destino migliore. Un destino di legalità e di reale crescita civile, condivisa nel consenso, modificando una continua reiterazione di una classe dirigente che non può più perpetuare se stessa ignorando sentimenti e capacità di idee altrui, una classe dirigente che giustifica il proprio essere attraverso le foto e i volti dei nostri ragazzi di oggi e di ieri.
Quei ragazzi di ieri che, vittime della disillusione, oggi vivono da altre parti, ma che non si sentono terroni, tutt’altro. Si sentono stranieri quando tornano in Calabria perché vorrebbero vedere un territorio capace di assorbire professionalità e capacità maturate al di fuori della nostra terra. Sevizi adeguati e rispetto del territorio, dell’ambiente. Ma non è così. Nulla cambia perché tutto si ferma sulle ragioni del controllo della politica e del locale, ragioni che si costruiscono per mantenere vivo un potere. Un potere che non chiede e non vuole il nuovo se per nuovo si intende il cambiamento degli equilibri di sempre.
Una Calabria che non è né ricca economicamente né ricca di idee per una ragione semplice, troppo semplice per non essere vera: perché la ricchezza crea reddito, crea indipendenza dal bisogno e, quindi, possibilità di critica cosciente e libera. Perché la libertà dal bisogno affrancherebbe ognuno di noi dalla dipendenza clientelare. Ed è ancora questa la povertà vera della Calabria e il limite consapevole su cui nulla muta e non muteranno sentimenti e speranze di chi guarda le foto e, attraverso questi volti, guarda se stesso, oggi come ieri.