
Credo, in verità, che la Calabria, come buona parte del nostro Sud abbia già provato tutto ciò che si poteva provare nella gestione disincantata di una terra privata di ogni interesse, sottraendo ai calabresi qualunque possibilità di essere protagonisti del proprio futuro, edulcorando ogni tentativo di costruire una coscienza nuova o ricorrere al solito e sempre utile alibi della criminalità o alla commiserazione di un nulla di fatto da patti elettorali che valgono la promessa di un voto. Oggi si presentano realtà diverse che si sovrappongono senza soluzione di continuità e il nuovo gossip politico dell’estate alle porte ci trascinerà nelle spiagge assolate a scommettere se prevarranno annunci già fatti o affidati a “fiction” risolutive dell’ultima ora. Potremmo leggere tra le righe quanto, ancora una volta, i destini della nostra terra si decideranno in una via “in” di Milano piuttosto che nei palazzi di Roma o in Calabria nelle stanze conquistate da un potere ormai da feudalesimo di vecchia maniera, per non dire baronaggio di basso profilo, che è maturato alle corti dei partiti e dei governi di ieri, di destra e di sinistra che fossero.
In questa estate di testa o croce, di annunci e ritiri dalle candidature possibili, come nei prossimi mesi credo che la Calabria, quella Calabria che vuole superare la frammentazione e che si presenta con una consapevolezza di essere comunità, superando il senso di marginalità e di subordinazione al potere del passato, debba ritrovare se stessa. Debba affermare un proprio orgoglio cercando di evitare nuove colonizzazioni politiche, facili proclami giustizialistici spesso senza risultato se non per affermazioni personali o a loro volta per convenienze di partito, così come si dovrebbero evitare guide senza appeal, senza sentimento verso la nostra terra e verso la nostra gente. Si tratterà di restituire ad una comunità nelle sue difficoltà la dignità di superare luoghi comuni e curare patologie funzionali anche al sistema di potere perché, in fondo se è vero che “[…] la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile […]”, richiamando Alvaro, è altrettanto vero che la trappola psicologica delle connivenze trasversali per mantenere assetti di potere per pochi è stata lo strumento migliore per giustificarli giocando sul dubbio, abbattendo il valore del merito a favore di criteri ancora una volta clientelari.
La Calabria che vorremmo è una regione nuova, protagonista, consapevole delle proprie forze e della forza dei propri figli presenti al Sud come Nord del nostro Paese e nel mondo intero. La Calabria che vorremmo è la regione che supera per una volta le lusinghe della politica di cortile e di corte, di qualunque corte si tratti, che tenta di rimodellare se stessa in un’ottica di capacità e non di slogan. Una regione che guarda alle mancate promesse, al disastro della sanità come alla parzialità dei servizi, alla provvisorietà degli assetti urbani come alle poche attività produttive, alla limitata se non fermata crescita dei territori come delle ferite che devono essere curate dagli stessi calabresi che ne sono i primi medici. Cure adeguate, ricercate, evitando di affidarsi alle altrui magiche pozioni senza cuore, evitando di rinchiudersi, nel momento dello sconforto, o della resa, all’alibi della cattiva sorte troppo spesso usato ad arte da alcuni per far sopravvivere nell’incurabilità ricercata un utile malato.
La Calabria non ha bisogno di druidi. Essa ha necessità di affermare, una volta per tutte, parafrasando De Gasperi, la differenza sempre meno chiara per molti, tra un politico che pensa solo al risultato elettorale e personalistico e la capacità di essere statisti. La capacità di fare politica attiva, vera, di amministrare assumendosi l’onere della responsabilità dei risultati perché credibili nei fatti. Tutto questo perché, in un mondo che muta prospettive e valori, nessuno può essere lasciato indietro, perché al centro dell’azione politica di domani vi è il futuro delle giovani generazioni: in Calabria come nel resto dell’Italia.