C’è un certo interesse dell’opinione pubblica e della stampa verso la proposta di favorire un processo di aggregazione politica che possa presentare nel già complicato panorama politico italiano un Partito del Sud. Ma c’è, soprattutto, una certa riottosità dei partiti nazionali a comprendere sia il vero significato di una provocazione, se così la si vuole intendere, sia il contenuto di una scelta che potrebbe modificare gli assetti interni del Partito Democratico e del Popolo delle Libertà. In quest’ultimo, in particolar modo, dal momento che l’area autonomista è maturata in passato al suo interno e che oggi si presenta con due controsviluppi polarizzatisi a Nord e a Sud e presenti nel medesimo cartello di maggioranza: la Lega e l’MpA. Ma non è solo questo.
La particolare enfasi posta nella ridefinizione della vita politica a Sud dimostra che il Mezzogiorno si pone ancora una volta come l’ago della bilancia di un sistema politico che negli ultimi anni ha spostato il proprio baricentro verso il Nord del Paese. Certo, le ragioni della Lega si sono presentate con tutta la loro efficacia dialettica e propagandistica, acquisendo, nostro malgrado e in molti casi, credibilità politica e nei fatti. Ai nostri politici è rimasta la “comoda” consolazione di poter mantenere assetti politici locali diventando, ed accontentandoci di esserlo, i referenti sul territorio dei leader romani o milanesi sempre meno interessati al nostro territorio in termini di opportunità di crescita e di investimento, ma molto sensibili, nell’approssimarsi delle consultazioni elettorali, ai nostri bacini di voti in cambio delle solite promesse.
Di fronte a questo sussulto di dignità è vero che le ragioni possono essere ricercate in almeno tre ipotesi, così come ricordato efficacemente su La Stampa di domenica scorsa (Ricolfi. Nordisti e Sudisti d’Italia). Ovvero, l’esistenza di una lobby meridionalista nel PdL -non nel senso di riconoscere in questa un’intellighencjia culturale di alto profilo che si ispira ad un Fortunato o ad un Salvemini- che tenta di spostare verso Sud il baricentro di un partito che rischia di dover fare i conti con una crescita della Lega al Nord con radici anche profonde nella comune, scomoda, alleanza di governo. Oppure dare corso alla costruzione, superando diversi e mal posti tentativi personalistici di farlo, di una Lega del Sud; un partito esattamente speculare alla Lega Nord. O, ancora, l’ipotesi di un partito del Sud. Una vera e propria formazione politica che abbia a cuore la tutela dell’identità e degli interessi di un Mezzogiorno d’Italia da tempo strumento e mercato di riserva per un Nord produttivo che assorbe ricchezza e risorse inoccupate del Sud attraverso una migrazione che continua ancora oggi.
E’ evidente che, ragionando sulle ipotesi formulate, tutte e tre sono paradossalmente, ma non troppo, ragionevoli. Ma credo, però, fermo restando una miopia senza pari nella storia degli altri Paesi europei -non ultima la Germania che in pochi anni ha superato, integrandola, quella parte orientale caratterizzata da forti disequilibri economici e sociali- che si debba fare un ulteriore esercizio di analisi per comprendere quali siano gli scenari prossimi e le ripercussioni sui due grandi partiti nazionali, PD e PdL, e, immediatamente dopo, definire il vero risultato che vuole essere ottenuto a medio termine da un’operazione così presentata.
Ora, nel primo caso dovremmo senza ombra di dubbio dire che sia per il Partito Democratico che per il Popolo della Libertà il Mezzogiorno non è stato altro che un modello di “mercato” politico sottocosto. Per la sinistra mancava una classe operaia, il messaggio socialista poteva attecchire difficilmente in culture caratterizzate da un certo populismo veterocattolico poco compatibile con una rivoluzione delle masse, tranne i pochi casi di coscienza popolare maturata in ambito contadino, come avvenuto nei moti dei Fasci siciliani o a Melissa in Calabria.
Un’assente sensibilità riscontrata sin negli ultimi anni allorquando, davanti ad un aperitivo in una cittadina del Nord, un esponente di vertice dell’allora Ulivo, oggi PD, a cui chiesi se era al corrente di chi sarebbe stato il candidato alla Presidenza in Calabria per il centro sinistra mi rispose che doveva trattarsi di ex democristiano ma che, qualunque fosse stato il risultato elettorale, in Calabria c’era da stare tranquilli perché non sarebbe mutato, anche con un esito sfavorevole delle regionali, il risultato delle politiche. Era tempo di politiche e di regionali, era la primavera del 2006. Ebbene, da queste poche parole ebbi la chiara sensazione che per la stessa sinistra, nell’economia del voto, il risultato calabrese sarebbe stato del tutto marginale per il successo nazionale. Per il Popolo delle Libertà, invece, l’anima del Sud che sopravvive in una possibile politica meridionalista è rappresentata da ombre leggiadre che si avvolgono su se stesse, ritenendo che il mantenimento di uno status quo sia la garanzia di conservazione del proprio appannaggio di censo, politico s’intende. Un modo di pensare che, guardando ieri e ancora oggi alla Lega la si considera ancora un esperimento politico apprezzabile ma da non porre in discussione nemmeno di fronte ad atteggiamenti offensivi della dignità di un popolo, di una comunità meridionale dal momento che l’ilarità possibile che può derivare dagli happening padani è solo una simpatica acrobazia allegorica di un partito che, comunque, è e resta un affare del Nord.
Di fronte a queste due considerazioni suffragate da dichiarazioni, atteggiamenti, politiche ed altre azioni e posizioni manifestate o evitate qualora fossero state necessarie per difendere il nostro Sud, si aggiungono altre due riflessioni sui risultati possibili a medio termine. La prima è che alla sinistra il Sud è completamente sfuggito di mano dissolvendosi capacità di fare politica e ancorando ciò che resta a baronie del momento. A destra c’è chi si preoccupa nell’immediato di quanto possa resistere il proprio proconsolato del leader di turno sceso in Calabria, dal momento che l’affermazione di tale forza ha richiesto, come controvalore, l’azzeramento di ogni possibile competitor. Una logica interna al partito della quale soprattutto molti candidati uscenti di Alleanza Nazionale ne hanno pagato il prezzo dalle politiche del 2001 in poi. La Sicilia, in verità, è più fortunata perché dispone di un proprio correntone nel PdL e del quale lo stesso Lombardo non può non tenerne conto. In tutto questo, insomma, sembra prevalere una logica oligarchica dove l’incapacità dei partiti nazionali di presentarsi come elementi di unione ideale del territorio li fa diventare vittime di una frammentazione di interessi di leadership sempre più localistiche che dalla Lega al Partito del Sud rendono ancora più confuso il quadro politico nazionale.
Una miopia che, senza risolvere l’endemica diaspora del Sud a favore del Nord, trasforma una patologia mai curata nella migliore occasione per giustificare una frattura ulteriore di una democrazia ancora non matura, tanto meno condivisa come valore di unità nazionale. Una frattura necessaria, strumentalmente utile per far si che risorse e potere siano ancora una volta appannaggio di pochi potenti che gestiranno sempre più autonomamente le nostre braccia e le nostre menti al Nord; le “nostre” risorse finanziarie -dovuteci perché guadagnate con il lavoro prestato altrove e per aver permesso lo sviluppo altrui- e i nostri investimenti pubblici al Sud.
E’ evidente che, ragionando sulle ipotesi formulate, tutte e tre sono paradossalmente, ma non troppo, ragionevoli. Ma credo, però, fermo restando una miopia senza pari nella storia degli altri Paesi europei -non ultima la Germania che in pochi anni ha superato, integrandola, quella parte orientale caratterizzata da forti disequilibri economici e sociali- che si debba fare un ulteriore esercizio di analisi per comprendere quali siano gli scenari prossimi e le ripercussioni sui due grandi partiti nazionali, PD e PdL, e, immediatamente dopo, definire il vero risultato che vuole essere ottenuto a medio termine da un’operazione così presentata.
Ora, nel primo caso dovremmo senza ombra di dubbio dire che sia per il Partito Democratico che per il Popolo della Libertà il Mezzogiorno non è stato altro che un modello di “mercato” politico sottocosto. Per la sinistra mancava una classe operaia, il messaggio socialista poteva attecchire difficilmente in culture caratterizzate da un certo populismo veterocattolico poco compatibile con una rivoluzione delle masse, tranne i pochi casi di coscienza popolare maturata in ambito contadino, come avvenuto nei moti dei Fasci siciliani o a Melissa in Calabria.
Un’assente sensibilità riscontrata sin negli ultimi anni allorquando, davanti ad un aperitivo in una cittadina del Nord, un esponente di vertice dell’allora Ulivo, oggi PD, a cui chiesi se era al corrente di chi sarebbe stato il candidato alla Presidenza in Calabria per il centro sinistra mi rispose che doveva trattarsi di ex democristiano ma che, qualunque fosse stato il risultato elettorale, in Calabria c’era da stare tranquilli perché non sarebbe mutato, anche con un esito sfavorevole delle regionali, il risultato delle politiche. Era tempo di politiche e di regionali, era la primavera del 2006. Ebbene, da queste poche parole ebbi la chiara sensazione che per la stessa sinistra, nell’economia del voto, il risultato calabrese sarebbe stato del tutto marginale per il successo nazionale. Per il Popolo delle Libertà, invece, l’anima del Sud che sopravvive in una possibile politica meridionalista è rappresentata da ombre leggiadre che si avvolgono su se stesse, ritenendo che il mantenimento di uno status quo sia la garanzia di conservazione del proprio appannaggio di censo, politico s’intende. Un modo di pensare che, guardando ieri e ancora oggi alla Lega la si considera ancora un esperimento politico apprezzabile ma da non porre in discussione nemmeno di fronte ad atteggiamenti offensivi della dignità di un popolo, di una comunità meridionale dal momento che l’ilarità possibile che può derivare dagli happening padani è solo una simpatica acrobazia allegorica di un partito che, comunque, è e resta un affare del Nord.
Di fronte a queste due considerazioni suffragate da dichiarazioni, atteggiamenti, politiche ed altre azioni e posizioni manifestate o evitate qualora fossero state necessarie per difendere il nostro Sud, si aggiungono altre due riflessioni sui risultati possibili a medio termine. La prima è che alla sinistra il Sud è completamente sfuggito di mano dissolvendosi capacità di fare politica e ancorando ciò che resta a baronie del momento. A destra c’è chi si preoccupa nell’immediato di quanto possa resistere il proprio proconsolato del leader di turno sceso in Calabria, dal momento che l’affermazione di tale forza ha richiesto, come controvalore, l’azzeramento di ogni possibile competitor. Una logica interna al partito della quale soprattutto molti candidati uscenti di Alleanza Nazionale ne hanno pagato il prezzo dalle politiche del 2001 in poi. La Sicilia, in verità, è più fortunata perché dispone di un proprio correntone nel PdL e del quale lo stesso Lombardo non può non tenerne conto. In tutto questo, insomma, sembra prevalere una logica oligarchica dove l’incapacità dei partiti nazionali di presentarsi come elementi di unione ideale del territorio li fa diventare vittime di una frammentazione di interessi di leadership sempre più localistiche che dalla Lega al Partito del Sud rendono ancora più confuso il quadro politico nazionale.
Una miopia che, senza risolvere l’endemica diaspora del Sud a favore del Nord, trasforma una patologia mai curata nella migliore occasione per giustificare una frattura ulteriore di una democrazia ancora non matura, tanto meno condivisa come valore di unità nazionale. Una frattura necessaria, strumentalmente utile per far si che risorse e potere siano ancora una volta appannaggio di pochi potenti che gestiranno sempre più autonomamente le nostre braccia e le nostre menti al Nord; le “nostre” risorse finanziarie -dovuteci perché guadagnate con il lavoro prestato altrove e per aver permesso lo sviluppo altrui- e i nostri investimenti pubblici al Sud.