La vicenda di Sant’Onofrio, della Pasqua riproposta in chiave tipica di una scena de Il Padrino se fosse possibile una dimensione calabrese di un’epica lontana, ci fa riflettere non solo e non tanto sul fatto specifico in se, grave per dire il vero, ma per i corollari alla vicenda. Il primo è l’eco che una notizia così singolare ha avuto collocandosi tra le prime notizie delle edizioni dei telegiornali e nelle pagine nazionali dei nostri quotidiani. Nulla di particolare, si sa, la Calabria fa notizia soprattutto in simili occasioni ed è generosa di scoop. Il secondo è, però, la notizia ripresa anche da alcuni webzine, ovvero di alcuni magazine online che ne hanno rilanciato i contenuti e ne hanno aumentato l’appeal. Il caso più interessante quello del webzine di un’autorevole Fondazione politica che, accomunando la notizia ad ogni luogo della Calabria, ha scelto non una foto relativa alla processione di Sant'Onofrio ma una foto scelta a caso di una cerimonia simile, certamente, purché fosse dovunque ma in Calabria. Ora non si tratta in realtà di contestare la scelta di un’immagine. Non è questo ciò che si vuole.
Tuttavia, da tempo ormai, immagini e messaggi che riguardano fatti della nostra terra non vengono collocati, seppur nella drammaticità che spesso esprimono, nella loro giusta dimensione. Tutti scrivono, alcuni giustamente altri strumentalmente, di ‘ndrangheta e tutti cercano scoop su un territorio che deve fare notizia. E in questo vortice di opinioni, di analisi, di giudizi, sembra che il tarlo criminale di questa terra sia l’essenza del nostro vivere, il virus che contagia anime e cuori di noi calabresi da far dimenticare che anche in altre parti d’Italia come nel mondo il crimine è una patologia dell’animo umano. In questo matura, allora, spontaneamente il paradosso di una duplice considerazione: o lo Stato è determinato una volta per tutte a ripristinare un senso di ordine e di civile convivenza se tale è il degrado della società in Calabria o dovremmo ritenerci tutti compiacenti con un simile stato delle cose e questo non è. Io credo che, al di là di tutto, l’era dei paladini dell’antimafia sia ormai man mano giungendo ad un limite di credibilità.
Un limite di effettività e di efficacia posto più dalla realtà dei fatti che non dai risultati ottenuti. Fatti così dimostrati -se non rovesciati come nella sentenza del Consiglio di Stato che ripristina, dopo l’esito elettorale, lo status quo ante del comune di Amantea sciolto per infiltrazioni mafiose ritenute inesistenti dall’Alto Consesso- che nella loro manifestazione hanno diluito la vera essenza di una possibile lotta al crimine organizzato. Una lotta che avrebbe dovuto mirare a disarticolare vertici e organizzazioni piuttosto che concentrasi in indagini a tutto campo e a volte sovradimensionate. Indagini clamorosamente ampie, che dipingono un alone diffuso criminalizzando interi Paesi, ritenute mediaticamente più redditizie piuttosto che valutare piccoli episodi criminali da cui poi, dopo, ne seguono drammi di ben più significativo spessore.
Ma tornando alla processione, nella commistione che ha imperato nella zona grigia del potere e della ‘ndrangheta, è altrettanto vero che si tratta di distinguere una volta per tutte la sacralità del rito dalle vanagloriose dimostrazioni di fede commisurate e considerate nel passato anche sulla base della disponibilità piuttosto che sulla possibilità di questua. Io credo, come tanti calabresi, che il fatto di Sant’Onofrio sia da interpretarsi come una giusta riappropriazione del senso cristiano della Pasqua. Un riappropriarsi di una visione del mondo, delle relazioni di fede e di onestà molte volte ridotte a meri valori per il popolo ma non per i potenti.
In tutto questo si consuma, ancora una volta, il dramma di una terra dove tutti i calabresi vengono uniti se se ne parla in negativo mentre, al contrario, prontamente dimenticati ogni giorno e ancor di più se se ne dovesse parlare in positivo. A tutto ciò si aggiungono i commenti di chi dell’Antimafia politica e non solo ne ha fatto una bandiera personale, ma delle cui attività ancora oggi se ne aspettano gli esiti, le scelte, le accuse e le condanne. In una lotta vera, coerente, concreta, giusta ad un fenomeno di devianza caratterizzato da una cultura propria non servono simboli di potenza per essere credibili o rendere più forte un messaggio di legalità.
La legalità è quotidianità del vivere secondo regole condivise e riconosciute. E’ umiltà nel fare ogni giorno quanto va fatto perché la legalità, se vera, se esiste, non ha necessità di apparire. Non è con una bella posa da foto da reporter embedded in un magazine del venerdì che si afferma l’immagine di un simbolo possibile di legalità trasfigurato in termini nell’assiomatico e ancestrale uso del voi rispondendo alle domande poste con un lei più consono. E’ nella capacità dello Stato, nella credibilità delle sue azioni, senza protagonismi d’occasione, che si risolve la sfida nel contrastare l’acuirsi di un fenomeno che matura nell’assenza di alternative per i giovani, nella persistente logica di una sovrapposizione di poteri legali e meno legali che travalica ogni slancio legittimista, che sottrae ogni credito possibile al senso di una legalità che dovrebbe avere il sapore della normalità. In tutto questo San Giovanni e i suoi portantini c’entrano poco. C’entra l’assenza di una politica vera di crescita e di sviluppo di una regione che è e rimane di confine. C’entra l’incapacità d affermare un modello alternativo di promozione dell’individuo. C’entra una Pasqua di rinascita nella giusta dignità di una regione che vede maturare in se esperti di finanza criminale piuttosto che capacità legali di produrre ricchezza che dovrebbe maturare e sostenere le aspettative per il futuro dei nostri giovani. C’entra una voglia di essere presenti con umiltà nelle nostre periferie evitando di regalare, ancora una volta, pubblicità gratuita a chi, nella logica del potere, di qualunque potere si tratti, se ne serve nostro malgrado.
Un limite di effettività e di efficacia posto più dalla realtà dei fatti che non dai risultati ottenuti. Fatti così dimostrati -se non rovesciati come nella sentenza del Consiglio di Stato che ripristina, dopo l’esito elettorale, lo status quo ante del comune di Amantea sciolto per infiltrazioni mafiose ritenute inesistenti dall’Alto Consesso- che nella loro manifestazione hanno diluito la vera essenza di una possibile lotta al crimine organizzato. Una lotta che avrebbe dovuto mirare a disarticolare vertici e organizzazioni piuttosto che concentrasi in indagini a tutto campo e a volte sovradimensionate. Indagini clamorosamente ampie, che dipingono un alone diffuso criminalizzando interi Paesi, ritenute mediaticamente più redditizie piuttosto che valutare piccoli episodi criminali da cui poi, dopo, ne seguono drammi di ben più significativo spessore.
Ma tornando alla processione, nella commistione che ha imperato nella zona grigia del potere e della ‘ndrangheta, è altrettanto vero che si tratta di distinguere una volta per tutte la sacralità del rito dalle vanagloriose dimostrazioni di fede commisurate e considerate nel passato anche sulla base della disponibilità piuttosto che sulla possibilità di questua. Io credo, come tanti calabresi, che il fatto di Sant’Onofrio sia da interpretarsi come una giusta riappropriazione del senso cristiano della Pasqua. Un riappropriarsi di una visione del mondo, delle relazioni di fede e di onestà molte volte ridotte a meri valori per il popolo ma non per i potenti.
In tutto questo si consuma, ancora una volta, il dramma di una terra dove tutti i calabresi vengono uniti se se ne parla in negativo mentre, al contrario, prontamente dimenticati ogni giorno e ancor di più se se ne dovesse parlare in positivo. A tutto ciò si aggiungono i commenti di chi dell’Antimafia politica e non solo ne ha fatto una bandiera personale, ma delle cui attività ancora oggi se ne aspettano gli esiti, le scelte, le accuse e le condanne. In una lotta vera, coerente, concreta, giusta ad un fenomeno di devianza caratterizzato da una cultura propria non servono simboli di potenza per essere credibili o rendere più forte un messaggio di legalità.
La legalità è quotidianità del vivere secondo regole condivise e riconosciute. E’ umiltà nel fare ogni giorno quanto va fatto perché la legalità, se vera, se esiste, non ha necessità di apparire. Non è con una bella posa da foto da reporter embedded in un magazine del venerdì che si afferma l’immagine di un simbolo possibile di legalità trasfigurato in termini nell’assiomatico e ancestrale uso del voi rispondendo alle domande poste con un lei più consono. E’ nella capacità dello Stato, nella credibilità delle sue azioni, senza protagonismi d’occasione, che si risolve la sfida nel contrastare l’acuirsi di un fenomeno che matura nell’assenza di alternative per i giovani, nella persistente logica di una sovrapposizione di poteri legali e meno legali che travalica ogni slancio legittimista, che sottrae ogni credito possibile al senso di una legalità che dovrebbe avere il sapore della normalità. In tutto questo San Giovanni e i suoi portantini c’entrano poco. C’entra l’assenza di una politica vera di crescita e di sviluppo di una regione che è e rimane di confine. C’entra l’incapacità d affermare un modello alternativo di promozione dell’individuo. C’entra una Pasqua di rinascita nella giusta dignità di una regione che vede maturare in se esperti di finanza criminale piuttosto che capacità legali di produrre ricchezza che dovrebbe maturare e sostenere le aspettative per il futuro dei nostri giovani. C’entra una voglia di essere presenti con umiltà nelle nostre periferie evitando di regalare, ancora una volta, pubblicità gratuita a chi, nella logica del potere, di qualunque potere si tratti, se ne serve nostro malgrado.