L’istituzione di una commissione ad hoc ad ogni caso eclatante sembra essere diventata la formula con la quale cercare di risolvere fenomeni complessi, analizzandone i fattori che li determinano, ricercandone le cause e proponendo le soluzioni una volta condivisa e trovata una posizione comune da difendere. Devo dire che tra le tante commissioni che in Italia si sono succedute su ogni evento che ha lasciato aperti dubbi e perplessità per modalità con le quali un certo fatto si è determinato, o per l’incidenza che un certo fenomeno ha, o ha avuto, su una parte del territorio nazionale, quella di istituire una Commissione per la verità, proposta qualche giorno fa da una parlamentare calabrese, è estremamente originale.
Non tanto per l’idea in sé, assolutamente rispettabile e comprensibile. Quanto per il significato che ad essa si vorrebbe attribuire: e cioè ricercare la verità su fenomeni caratterizzati da ragionevoli dubbi verificatisi di recente in Calabria, nella locride. Dubbi sulle modalità di condotta di azioni politiche, di gestione di istituzioni, di parti di esse o di strutture di significato sociale ed assistenziale. Dubbi sulle responsabilità politiche e personali. Dubbi sull’efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa magari condotta dagli organi preposti. Organi che dovrebbero aver già visto nel commissariamento di comuni e strutture socio-sanitarie il fallimento di una politica del territorio che risponde a logiche forse diverse da quelle del mandato elettorale o del rispetto giuridico della missione affidata al responsabile amministrativo.
Ebbene, credo che di fronte a tutto questo l’idea di una Commissione per la verità in Calabria può significare due sole cose. La prima, una pleonastica interpretazione del ruolo di una Commissione che, qualunque sia il suo obiettivo e la ragione della sua istituzione quale organo ad hoc, non può che cercare la verità, fare chiarezza sulla nebbia delle reti trasversali di interessi e logiche di potere molto prossime e che si sovrappongono soprattutto in Calabria con una facilità sbalorditiva.
La seconda, ammettere il fallimento di ogni altra Commissione, anche parlamentare e da questo l’incapacità di ricercare la verità con gli strumenti che uno Stato ha a disposizione, guardando allo Stato come Istituzione e come categoria politica. Come insieme di poteri e come potere. Come espressione di una classe politica che dovrebbe essere la prima responsabile della verità e della buona amministrazione. Della verità soprattutto quanto della efficienza ed efficacia dei servizi che intende offrire ed amministrare nell’interesse del cittadino e non di alcuni, di coloro che della politica ne hanno l’esclusiva da generazioni.
Forse per superare la linea grigia fra senso della verità, senso di responsabilità, e nebulosa gestione del pubblico sarebbe sufficiente cogliere alcuni piccoli aspetti della vita di ogni giorno. Camminando sulle strade dei nostri piccoli paesi o anonimamente lungo un corridoio di un ospedale cercando un medico per una radiografia in una astanteria senza pavimenti, in un pronto soccorso dove la medicina d’urgenza è solo una formula da ospedali di altri lidi. Basterebbe così poco perché una Commissione per la verità istituita ad hoc su qualsiasi fatto diventi un inutile esercizio di retorica politica. Basterebbe vivere nello stesso quotidiano del cittadino per capire molto di più di quanto potrebbe, o vorrebbe capire, qualunque commissione di turno.