Dovrei essere coerente con me stesso quando decido di non commentare un fatto od un evento che colpisce gli animi e i sentimenti di chi, come me, si sente calabrese per origini e per cultura. Dovrei, forse, astenermi dal commentare fatti che da anni ormai, da sempre per me, si ripetono con cadenza periodica perché altrettanto periodicamente la reazione che segue è sempre identica: amarezza, sgomento, a volte anche una sorta di sorpresa.
In pochissimo tempo la Calabria si sente vittima di una sindrome mafiosa. Ma non è una novità. Non vi è nulla di nuovo. Come non vi è nulla di nuovo nell’affidare l’efficacia del contrasto possibile al binomio politica e mafia, alla volontà di disarticolare l’esistenza di complessi ed articolati sodalizi criminali che condividono il gioco politico da sempre. Come non vi è novità nel tentare di dimostrare la trasversalità di un fenomeno che inserendosi nelle dinamiche amministrative convive con apparati istituzionali, quasi in una sorta di coesistenza storicamente consolidatasi soprattutto al Sud. Ed è indubbio che anche le indicazioni che emergono dai commenti - salvo l’analisi approfondita di Sergio Romano sul Corriere della Sera di lunedì 24 - non rinnovano il dialogo ed il confronto sul fenomeno in sé: cioè non contengono novità!
Nessun commento o valutazione alle osservazioni ed interpretazioni lette in questi giorni può essere accolto perché, altrimenti, dovremmo riconoscere una mancanza di volontà di chi pur potendolo fare, perché delegato a governare la regione sotto qualunque bandiera di partito, non ha mai conseguito l’obiettivo principale: cioè garantire il senso di legalità. La Calabria vive la sua triste realtà di un nuovo passato che si commenta da sé. La ‘ndrangheta, quella vera, si ripropone come un fenomeno sociale prim’ancora che politico e politico prim’ancora che economico. Un fenomeno che affonda le radici nella storia più intima delle nostre terre, perché è un aspetto della vita, di un modo di interpretare le relazioni sociali in senso lato. Per questo l’unica novità per poterla combattere è dimostrare di avere una volontà comune nel farlo.
Una volontà concreta che si unisce alla possibilità di affermare delle verità processuali che superino la verità politica, comprensibilmente parziale, e realizzino quel risultato di legalità e di certezza della pena che nel Sud stenta ad affermarsi. Al di fuori di ciò si permette ad un’organizzazione criminale, nella sua architettura fatta di capi, gregari e prossimità esterne, una forte capacità di adattarsi al cambiamento volta per volta, di presentarsi come un soggetto che assume un ruolo di orientamento delle scelte e delle volontà, un soggetto competitivo così forte in determinate aree che dirige parti considerevoli del consenso proponendosi come veicolo di mediazione superando qualunque ostacolo. Oggi sopravvive, infatti, ed è un’altra non novità, nella dimensione mafiosa una sorta di attività di mediazione che cerca di accreditarsi parallelamente come uno strumento utile di controllo del territorio – quest’ultimo inteso non solo in senso fisico ed economico, ma soprattutto umano - nel quale essa opera forte di un consenso interno consolidato e di una capacità intimidatoria esterna molto efficace.
Tutto questo rende la ‘ndrangheta sempre più policentrica e, nella lotta politica per la conquista del consenso, pur non esprimendo indicazioni di voto, si inserisce in un modello parallelo di controllo dell’elettorato utilizzando come sistema di pressione l’offerta, a volte per conto terzi se utile, di aspettative a cui l’elettore stesso tende. In un’analisi consapevole, con simili presupposti, diventa altrettanto evidente che se si abbandonano questi elementi ricorrenti si rischia di far assumere al fenomeno criminale una sua ineluttabilità. Di considerarlo come una malattia incurabile per una regione priva di futuro, un cancro in un sistema in crisi dove la democrazia arranca attraverso ostacoli di ordine economico e sociale. Ostacoli, questi, spesso strumentali ad una logica di controllo della crescita per aumentare la dipendenza dal bisogno e limitare, così, scomode competitività per il potere, scomode eccellenze di idee capaci di modificare assetti immodificabili per ragioni di parte, per garantire il futuro ad una classe dirigente dotata da sempre di ampia trasversalità e di larghe vedute politiche. Una classe politica che si riproduce da sé.
Così, se coabitare con la mafia può sembrare un’affermazione forte, certamente non può non dirsi che la stessa criminalità non si manifesta in spazi umanizzati caratterizzati da una marginalità sociale che si trasforma nel terreno del consenso ridisegnando i termini stessi della percezione della legalità e della legittimità del potere. Non solo. Se il potere riconosce all’organizzazione criminale una forza catalizzatrice di aspettative di voto o di risultato, comunque raggiunto attraverso azioni condotte parallelamente all’azione politica, il sentimento di legalità rischia di abbattersi delegittimando la stessa classe politica e con questa il concetto di ordine giuridico di cui la politica ha il dovere, e la responsabilità nei confronti dei cittadini, di esserne il primo garante qualunque sia il rischio da correre.
La verità è che la legalità è un valore che deve essere condiviso e non ammette compromessi di alcun genere. È un valore che va difeso comunque anche contro interessi di parte o individuali, perché l’abbattimento del senso di legalità diventa un pericolo per chiunque perché non vi sono zone franche nel mondo dell’illegalità. La legalità non è un’astrazione da cassetta. Essa passa ogni giorno attraverso la razionalizzazione della pubblica amministrazione, nelle efficienze dei servizi, nel ritenere giusto offrire servizi adeguati a comunità che soffrono di un ritardo ancora non colmato ma anche nel rispettare e garantire diritti evitando l’altrettanto illegale abuso della legge. Quanto succede in Calabria rappresenta un peso per i calabresi, per chi ha la responsabilità di modificare una cultura trasversale di compromessi ed affari che coinvolge chiunque, nessuno escluso. Un peso di un cambiamento necessario.
Un cambiamento che non può che essere espresso da una concreta, sincera, rischiosa, volontà di contrastare qualunque prossimità, seppur conveniente, alla criminalità per un sistema che ancora oggi sopravvive galleggiando su molte zone grigie e che nella sua intima prossimità lega tutti. Tuttavia un punto deve restare fermo. La Calabria, il futuro della Calabria, è e deve essere nelle mani dei calabresi. Nessun altro può farla uscire dal baratro. La richiesta di aiuti allo Stato è il solito alibi per una comunità che non si vuole far crescere, o che “qualcuno” non vuol far crescere per comodità di potere politico, perché il potere si riproduce ancora oggi con le stesse logiche di famiglia tipiche di un neo-feudalesimo tutto calabrese. Il cambiamento richiede logiche e idee nuove, in politica come nella vita pubblica e nei servizi resi alla popolazione.
Quelle idee presenti in quei calabresi che in questa Calabria non potranno mai tornare per contribuire a modificare la cultura e la gestione della vita pubblica perché lontani da un sistema che misura le capacità su altri parametri. La verità è che vivendo in questo nuovo passato non ci si può più illudere, e non si può illudere soprattutto chi crede nei valori di una comunità che deve essere affrancata dal bisogno. Una comunità, per questo, libera di poter decidere da chi, come e perché farsi rappresentare e chiedere e controllare la qualità dei servizi che è giusto che siano forniti, iniziando a garantire l’accesso a carriere e opportunità di gestione in senso meritocratico quale primo presupposto di legalità visibile.
Quei valori che invece di essere difesi con impegno e concreta azione vengono rispolverati a necessità, di fronte al dramma del momento, quasi come se dovessimo giustificare quanto non si potrebbe fare in altri modi, con altri esempi, con altre idee, da parte di una classe politica capace e moderna che guarda al mondo e non come ieri al facile microcosmo nel quale ha potuto governare come ha creduto, come ha voluto senza confrontarsi e riproponendo, senza combattere, antiche paure e mai sopite perplessità del calabrese, onesto e dimenticato, qualunque.