La legalità degli altri
Legalità, parola che assume significati diversi senza tempo o senza spazi, o nello spazio e nel tempo, secondo un sentimento dominante che decide spesso da sé se la distinzione tra il male e il bene possa essere strumento per affermare princìpi e regole di comodo per giustificare un potere dominante o degli egoismi personali di successo. Durante un convegno sulla legalità a Cosenza, nel 2005, un vicedirettore della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) disse che statisticamente in ogni famiglia in Calabria ogni cinque persone uno era in odore di ‘ndrangheta. Un’affermazione singolare. Se dovessimo guardare, in Calabria, ad ogni famiglia con più parentele allargate da parte di padre e da parte di madre, mogli, figli, nipoti, cugini e rispettive mogli e figli non ci sarebbero vie d’uscita. Non solo, se si dovessero poi aggiungere i familiari emigrati in Germania o in Australia o in Canada il quadro sarebbe perfetto per dimostrare l’assunto. Come scrisse Alvaro, se è vero che “[…] la disperazione di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile […]” allora dovremmo intenderci su cosa pensiamo che sia la legalità. Se essa è un semplice rispetto di regole allora anche non ottemperare alle leggi di un regime tirannico sarebbe sicuramente illegale o se, in un modello democratico, il senso della legalità matura nella capacità di superare anche una trappola legalitaria ed antropologica di comodo. Ovvero nell’affermare la certezza di un diritto e dei diritti nella presunzione di innocenza e non di colpevolezza. Nell’aiutare chi cade nel fascino della strada facile della devianza criminale dimostrando il valore delle istituzioni e della vita pubblica, e non riducendo ogni azione a una sterile attività repressiva. Uno Stato che si presenta solo in veste autoritaria, che non premia i migliori, che tende ad accomunare genitori e figli in una sorta di destino biblico comune senza vie di uscita in una devianza senza fine, non dimostra una sua forza, ma una debolezza nei modi e nelle capacità di lotta e si pone, così, sullo stesso piano del proprio avversario. Un avversario che nel sopravvivere fa mantenere in piedi privilegi e altri appannaggi che si costruiscono proprio sulla lotta al crimine. Quell’insieme di privilegi, diretti e indiretti su cui si realizza quel “Pane della legalità” descritto da Antonio Delfino, che non sfama tutti ma solo alcuni, troppo pochi, per affrancare dal bisogno e dalla necessità i meno fortunati, i più deboli. D’altra parte è vero che la mafia, come la ‘ndrangheta, sono organizzazioni policentriche, ovvero che non danno indicazioni di voto, ma è altrettanto vero che se esse sono un’invenzione, quando fa comodo, ma è anche vero che spesso sono un utile specchio quando non si vogliono dare altre risposte o giustificare posizioni di parte. Così come se mafia e ‘ndrangheta giocano a rendere sempre più confusi i ruoli, certamente diventa un agire suicida partecipare e favorire tale confusione laddove si creano i presupposti perché “[…] tutto sia mafia e nulla sia mafia […]”. Perché, in ogni caso, reprimere senza risposte significa creare delinquenza su delinquenza e rendere vano l’assunto che se maggiore è il livello di consenso della comunità verso le regole, allora maggiore saranno le possibilità di crescita di questa comunità.