15 agosto 2007. E’ il giorno della strage di Ferragosto o strage di Duisburg. Ultimo atto di una faida iniziata nel 1991. La reazione dello Stato.
La spiegazione di un fenomeno criminale, con la ricostruzione di un quadro investigativo plausibile quando questo si manifesta con particolare virulenza e specificità, non richiede misure d’emergenza, ma capacità adeguate di arginare le conseguenze contrastando i comportamenti e i reati che ne caratterizzano le stesse dinamiche. In Calabria, e in Italia da anni, ogni volta che si verifica un fatto criminale di particolare allarme sociale o così percepito, quando questo fatto presenta particolari modalità di condotta e un certo appeal mediatico, la riposta è sempre la stessa: un incremento della proiezione esterna delle Forze dell’Ordine sulle strade.
Una soluzione di rito, quasi come se si trattasse di arginare una minaccia rappresentata, organicamente inquadrabile in una forza numericamente definita. La verità è che una proiezione immediata delle forze non risponde ad un criterio di capacità di contrasto su fenomeni criminali, comunque chiari, invasivi e pervasivi della società calabrese. Bensì, è il modo più visibile di cercare di dimostrare la presenza di uno Stato che dovrebbe incrementare, invece, competenze investigative analizzando i fenomeni, i delitti e prevederne le conseguenze con abilità tali da superare le capacità criminali. Capacità, queste ultime, che maturano comunque senza preoccuparsi di qualunque possibile dimostrazione di forza.
La militarizzazione di un territorio è, da sempre, l’espressione di uno Stato che non riflette su una debolezza politica e amministrativa di idee, sulla difficoltà di poter incidere significativamente all’interno delle comunità che amministra con una forza espressa attraverso una concreta azione investigativa di contrasto e capacità di risultato. Un contrasto che mira a far prevalere la giustizia attraverso i risultati operativi, ad affermare una politica legale e della legalità dalla quale dipende anche buona parte dell’azione amministrativa espressa. Risultati che dovrebbero essere la conseguenza di un’attività di analisi, di ragionata volontà di conseguirli e non il prodotto parziale di emozioni contingenti. Risultati che permettano di distinguere reati apparentemente simili ma che, al contrario, dovrebbero offrire opportunità diverse di lettura.
L’approccio investigativo, insomma, non può risolversi nella corsa ai ripari, ma deve tendere ad anticipare le conseguenze di un fatto criminale soprattutto allorquando il fatto presenta aspetti anomali come l’omicidio del dicembre 2006, aspetto significativo nella condotta di una vendetta che in genere tende ad escludere la donna quale vittima. Oggi, di fronte a tale scempio, le dichiarazioni e le ipotesi che si leggono sui quotidiani o si deducono dalle interviste sembrano esulare da un’analisi retrospettiva che vada al di là dell’ipotesi stessa, capace di mettere in conto anche eventuali errori di valutazione, soprattutto, diventerebbe difficile credere che un’elaborazione previsionale si limiti solo ad individuare la probabile data della vendetta. Perché se così fosse l’orizzonte si presenterebbe leggermente limitato dal momento che non è la data della vendetta che deve essere ricercata per assicurare, in quel tempo, l’ennesima proiezione di forze, ma, forse, è nel realizzare, nel frattempo, un significativo risultato investigativo che assicuri alla giustizia mandanti e carnefici una volta per tutte.
Un risultato che dia nomi e cognomi ai responsabili, che limiti in futuro congetture e filosofici dibattiti sul fenomeno della ‘ndrangheta di cui, in termini generali, tutti sanno tutto ma, nonostante ciò, e nonostante la presenta capillare delle forze di polizia, essa continua a fare affari e ad uccidere senza limiti di territorio o paure da pressioni contingenti. Inoltre, se un’ipotetica strada dovesse essere una sorta di tolleranza su una mediazione possibile tra affiliati per far finire la faida, credo che sarebbe definitivamente in gioco la credibilità dello Stato e aumenterebbe il credito della famiglia che si attribuirebbe il successo dell’operazione portando sul terreno avversario le ragioni e la ragionevolezza di un gioco che dura da troppo tempo.
Se poi dovessimo lasciar fare a loro aspettando che lo sterminio esaurisca il problema, i commenti, a questo punto, li lascio al lettore. Se poi - così come dichiarato nell’intervista all’Agi e agli inviati tedeschi della Bild Zeitung e della Bild am Sonntag da chi coordina le indagini - per la “[…]’ndrangheta è conveniente ammazzare in Germania, continuerà a farlo […] così come lo farà ovunque riterrà sia utile ai fini del suo progetto criminale fondato su grossi interessi economico-finanziari […]” allora toccherà sempre allo Stato dare le risposte attraverso risultati concreti.
Risposte adeguate che disarticolino le strutture e i patrimoni, affrancando le famiglie dalla ragnatela parentale nella quale ricadono ogni volta che lo Stato dimostra la sua assenza o la sua incapacità nell’essere l’unico depositario della giustizia. Perché nella lotta ad un’organizzazione e ad una cultura criminale sono solo i risultati e l’affermazione dei princìpi della comunità legale, politica e istituzionale, giuridica che contano e non il numero degli uomini in divisa che troveremo lungo le strade della costa jonica reggina. È la qualità, e non la quantità, delle attività condotte che assicurano credibilità allo Stato e garantiscono sicurezza al cittadino vincendo la sfida con quel potere parallelo, quello criminale, di cui sono ostaggio le periferie della nostra regione.