Riflessioni (calabresi) a margine del libro di Francesco Forgione I Tragediatori. La fine dell’Antimafia e il crollo dei suoi miti.

Due aprocci non lontani, ma molto prossimi, con una duplice possibilità interpretativa ma un’unica certezza: la mancanza di fiducia in coloro che dovrebbero farsi carico con obiettività e umiltà della sicurezza e del senso di giustizia dei cittadini. La polemica sorta in questi ultimi anni - difficile chiamarlo dibattito perché spesso non voluto, né sostenuto da alcuni rappresentanti delle istituzioni se non nel senso di difendere un consolidato mainstream comodo ad una stampa che fa del sensazionalismo il suo core bussiness - sembra essere giunta ad un capolinea interessante. E non solo perché la criminalizzazione diffusa ha di fatto ridotto i termini di credibilità di un certo modo di fare antimafia, distribuendo colpe e responsabilità o ancorando l’esistenza del vincolo associativo al nome della famiglia o ai rapporti di parentela, prim’ancora che alle responsabilità specifiche e personali degli indagati.
Ma perché la stessa esposizione mediatica di una certa Antimafia, non suffragata spesso e alla fine da risultati processuali ben definiti, ha commesso l’errore di autoreferenziare se stessa. Di rendere sempre meno credibile il suo ruolo e le sue conclusioni a cui ogni relazione del passato approdava trasformandole in pre-sentenze, pre-giudicando e pre-condannando persone e luoghi senza offrire alcuna apertura di credito o possibilità di letture diverse. La fine dell’Antimafia non è altro che la nemesi di una deriva giustizialista che ha ottenuto quale risultato quello di giustiziare se stessa. Un pò come Robespierre e il suo fatale rapporto con la sua crudele creatura: il Direttorio.
Il crollo di fiducia verso l’Antimafia non è solo il risultato di indagini dissoltesi in assoluzioni, o nella strumentale associazione criminale di azioni politiche o di comportamenti penalmente non rilevanti. E’ il risultato dall’avere nel tempo, per speculazioni politiche e mediatiche, fatto nient’altro ed in molte occasioni di tutta un’erba un fascio ricorrendo, e snaturandolo, a quel vincolo associativo che pur di configurarlo - in virtù dell’essere una fattispecie ritenuta di pericolo e a difesa preventiva - si riteneva di poter fare a meno di individuare all’inizio di un’indagine anche il reato fine. In questo non senso investigativo di un reato re-interpretato da forma libera in forma anarchica, l’Antimafia a cui si riferisce Francesco Forgione nel suo I Tragediatori. La fine dell’Antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino, 2016) sembra aver dimenticato, se non ignorato, il dettato costituzionale affermando nei termini, nei modi e nei fatti la prevalenza di un principio non legale di colpevolezza in luogo di un principio legale di innocenza sacrificando, quest’ultimo, a vanesie mediatiche per costruire veri e propri protagonismi personali al cui fascino in pochi hanno resistito.
Il libro dell’ex Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia si pone come un saggio non casuale ma, riguardo l’idea di fondo, non esclusivo. In Calabria, e nella locride, la parola tragediatori ricorda uno scrittore puntuale, fine e sarcasticamente pungente. Un giornalista dotato di una dignità non comune e di un altrettanto non comune amore per la Calabria: Antonio Delfino. Il termine tragediatori compare in alcuni suoi scritti e nei dialoghi nelle sere d’estate. Dialoghi e scritti dove lo scrittore di Platì non nascondeva il suo associare tale figura alle professionalità magnogreche che ben si cimentavano nelle diverse parti. Tragedie, che hanno caratterizzato il tramandarsi di una sorta di cultura del dramma nel nostro Sud. Una cultura della tragedia che si è recitata in ogni angolo delle contrade del Mezzogiorno. Una cultura confusasi nelle esperienze storiche di un potere che ha assunto le forme di un Leviatano, tanto quanto la criminalità ha giocato ad esserne una alternativa cercando di dominare, alla sua ombra, il territorio andando oltre la vita di ogni individuo. Se per Forgione l’Antimafia è giunta ai suoi limiti con il crollo dei vari miti, bisognerebbe chiedergli - nonostante l’autore descriva bene il suo impegno nella Commissione e il suo pensiero divergente - perché spiegare oggi cosa è stata o cos’è una certa Antimafia. E non sarebbe una domanda da poco.
Certo, l’autore rimedia alla fine del suo saggio restituendo e chiedendo fiducia ai giovani. Tuttavia, anche Antonio Delfino voleva dimostrare quanto fosse necessario rimettere in discussione un certo modo di interpretare i fenomeni criminali, di restituire dignità al gioco politico per evitare di giungere, soprattutto in Calabria, a due risultati emblematici a cui si è arrivati. Da una parte la criminalizzazione di un territorio e di uomini e donne responsabili solo per vincolo di parentela e per rendita di cognome di tutti i mali di una terra, con una conseguente perdita di fiducia nelle istituzioni che è palpabile ogni giorno. Dall’altra, la sospensione di fatto della democrazia rappresentativa attraverso un ricorso diffuso al commissariamento dei comuni per ipotesi che spesso non si sono rivelate congrue, ma hanno giustificato, con esborsi non da poco, le diarie dei commissari e assicurato prime pagine di giornali o servizi televisivi facendo disamorare dall’impegno civile gran parte dei cittadini calabresi. Tuttavia, la verità che ognuno di noi può trovare nel libro di Forgione è che vi è almeno l’apprezzabile volontà, un pò tardiva, nel descrivere una pericolosa inversione di tendenza che oggi si può leggere nelle strade e negli occhi dei ragazzi calabresi e non solo. Quella di cercare di spiegare perché, come scrive Giuseppe di Lello nella Prefazione al volume di Forgione […] “…Si sperava che nel corso degli anni, dopo tante battaglie politiche, culturali, sociali e giudiziarie contro Cosa Nostra, prevalessero nel Paese atteggiamenti di avversione e insofferenza contro la stessa e invece oggi ci troviamo a dover constatare una diffusa sensazione di rigetto del movimento antimafia che rischia di travolgere anche quanto di buono e di efficace esso ha prodotto…”[…].
La risposta non è solo nei casi citati da Forgione e nei titoli dei capitoli che fanno già presagire il ri-orientamento dell’autore, (dalle Avanguardie togate al paragrafo su Andreotti e i fondamentalisti. Dal capitolo sulle Antimafie contro e i paragrafi su Libera e il suo popolo ecc…). Essa è nel libro di Forgione quanto ancora oggi lo è però al di fuori dal momento che il volume non segna il tempo, lo reitera perché ancora una volta si ripresentano i modi e i modelli attraverso i quali una certa Antimafia si è mossa nel passato. Antonio Delfino ieri e Ilario Ammendolia ancora oggi, come molti altri per rimanere in Calabria, hanno avuto ed hanno il coraggio di mettere al centro una legalità che non sembra trovare consensi dal momento che l’approccio istituzionale a cui essa si riconduce continua a non fare distinzioni. Un approccio troppo occupato a scrivere un romanzo criminale senza fine dove tutto è ‘ndrangheta. Come ricordava in un articolo online Gianni Carteri, nel novembre 2012, Totò Delfino era uno dei pochi che conosceva bene la simbologia mafiosa che per lui era una metafora. Ma per Antonio Delfino anche la legalità alla fine era diventata metafora di se stessa. E’ vero, […] “…troppi tragediatori sull’uno o sull’altro e l’altro campo [possono] talora far scadere in un moralismo strabico e fazioso, senza accorgersene…”[…] scriveva Carteri. Ma il fatto che Totò Delfino annuisse a tale considerazione dimostrava quanto egli fosse ben accorto e consapevole di essere costretto a sconfinare nella nebbia della poca chiarezza per cercare di comprendere certi luogi comuni cari ad alcuni ambienti istituzionali. Per Delfino, l’esperiena storica dell’Antimafia ha trascinato con sè valori e speranze sulle quali pretendeva di costruire la sua credibilità per poi negarla con i fatti.
Con le onlus che iniziavano a proliferare quasi in termini di monopolio sulle rendite o i beni sequestrati dallo Stato, con il trascinare in un vulnus di marchiatura per nascita giovani che invece chiedevano e chiedono di poter vivere in una società nella quale alle morse della criminalità non si aggiungesse uno Stato miopisticamente solo repressivo. Uno Stato più preoccupato nell’alimentare le statistiche criminali, che giudicava secondo vincoli di parentela senza considerare l’assenza di opportunità di lavoro, la mortificazione di ogni aspettativa di affrancarsi da un limbo e da un nome. Oggi, alla fine di ogni romanzo possibile o di ogni analisi sociologicamente corretta, il rischio che si corre è che, si tratti di Sicilia piuttosto che di Calabria, il tragediatore possa tornare ad essere colui che recita pro domo sua. Colui che ricorre con maestria ad una posizione dominante per accreditare se stesso piuttosto che un valore condiviso ricorrendo all’enfasi del dramma. Si è intervenuti in molti casi gettando nel calderone mediatico-criminale chiunque per il solo fatto di essere calabrese, o per aver conosciuto persone di cui non poteva non sapere, per un caffè piuttosto che per essere della locride. Si sono processati riti religiosi visti come una novità con la gente che si chiedeva dove fossero prima proprio coloro che hanno gridato allo scandalo.
Si sono sospese amministrazioni comunali o si sono conquistati laicamente, come successo recentemente in un comune preaspromontano, pulpiti vari, come quelli di una chiesa per ricordare ai ragazzi che non è stata pronunciata la parola ‘ndrangheta durante la funzione come se ciò fosse da leggere come un’intenzione, senza pensare che il parroco e i ragazzi, magari, volessero andare oltre. Magari esorcizzare con la celebrazione della vita il senso del sacrificio piuttosto che il ricordo di un dramma vissuto già, drammaticamente, ogni giorno. Magari l’aspettarsi qualcosa di più dallo Stato nelle sue diverse espressioni. Magari il loro voler andare avanti senza essere costretti ogni volta a doversi volgersi indietro per vergognarsi di qualcosa, confidando che chi ha il dovere di curare la malattia lo faccia e che questa non si trasformi in un alibi per altri fini, quasi ad emulare una multinazionale che spera nel ritardo della cura definitiva del male per moltiplicare le vendite del farmaco. La lezione di Delfino come di Forgione, di cui il primo apprezzerebbe oggi le posizioni del secondo superando le riserve del tempo, è che colui che nel tragediare assume in sé un potere, alla fine induce alla paura e al timore sconfinando, così, nello stesso strumento a cui ricorre la criminalità.
Il risultato che si legge nelle pagine del libro di Forgione è che l’ennesimo incipit di Sciascia sia ancora una volta drammaticamente esatto. E, cioè, che […] “…a forza di andare in profondità, si è sprofondati …”[…]. Ma se […] “…soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche leggerezza, che sa essere leggera, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità…” […] allora forse questa è la strada. Superare il rischio di trasformare una lotta seria in una pericolosa banalità. Se così non fosse, ogni anelito di difesa della vera legalità diventerebbe uno sforzo inultile se lo scopo è diverso, se la paura è dettata dal fatto che la lotta alla criminalità invece di essere la lotta contro una patologia diventi un brand da mercato e con tante grazie dal crimine organizzato che non aspetta altro. In Calabria, come in Sicilia, si sono osservati e ascoltati in molte occasione paladini tragediatori piuttosto che paladini ragionevoli che dovrebbero dare dello Stato un’immagine di presenza costruttiva, e non solo repressiva. Antonio Delfino lo aveva capito in anni non sospetti, laddove le assoluzioni dei maxiprocessi fioccavano, tanto quanto ogni giorno le maxioperazioni e i maxisequestri dominavano sulle pagine dei giornali o nelle relazioni dell’Antimafia con nomi e cognomi di persone già pre-giudicate a vita, ancorchè poi non condannate in dibattimento.
Questa tragedia paradossale della legalità sacrificata in nome di se stessa che si è abbattuta sulla Calabria, perché è la Calabria la metafora a cui ho voluto riferirmi, è a quanto pare il frutto di tragediatori che non hanno considerato che i giovani hanno voglia e coraggio di vivere e che la paura non paga. Né quella ricercata dalla criminalità, né quella rappresentata da uno Stato che vede nero dovunque invece di offrire la luce. La differenza tra queste due tragedie è che nel primo caso i ragazzi si ribellano, ma continuano a vivere cercando di cambiare laddove hanno possibilità di farlo andando avanti, oltre la malattia. Nel secondo, è che lo Stato perde di credibilità quando ogni tragedia viene trasformata in miopia o in un bussiness mediatico-processuale, in un bussiness economico o, ancora peggio, in un ulteriore strumento di paura. Credo come Forgione ma, ancor prima come Antonio Delfino, che alla fine si sia giunti ad un punto di non ritorno per il quale si dovrebbe avere il coraggio di far si che il pensiero di Sciascia non sia ancora una volta la nostra nemesi intellettuale laddove ci ricorda che […] “…La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini …” […]. E questo perché non possiamo credere, dovendo lottare contro la criminalità, che nella civiltà del diritto possa avere ragione un Barrington Moore Jr. dovendo convivere con il dubbio che […] “… perché l’ingiustizia risulti accettabile, [debba] mascherarsi da giustizia…” […].