"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

La normalità: unica vera emergenza

La Calabria è diventata un’emergenza. Una terra ingovernabile attraverso le istituzioni preposte a ciò e attraverso gli uomini che rappresentano le stesse Istituzioni. Non ci sono altre considerazioni. Ogni valutazione su un’emergenza tende a dimostrare che qualunque ipotesi di normalità nella gestione di un evento si sia così ridotta da non poter più essere realizzata  con l’impiego dei mezzi ordinari di governo, di amministrazione, di gestione in senso lato di una comunità.

Una incapacità di autogestirsi con risorse proprie, con proprie professionalità che per chi conosce poco la Calabria, e per chi si esercita in commenti ed analisi d’occasione, viene percepita come una terra in cui non vi sono regole che resistano nel tempo. Regole che non si sono consolidate al punto tale da permetterne l’evoluzione, da sostenerne lo sviluppo e la crescita secondo modelli che hanno determinato il successo di altre regioni e che ci allontanano sempre più da loro. Una terra che per l’immaginario collettivo è rappresentata da cartelli segnaletici da frontiera, da volti dispersisi nella sfiducia storica verso le istituzioni.

E, così, in questa rincorsa politica e mediatica verso una frontiera da governare, ci si dimentica, come sempre, che  le radici profonde dell’oggi sono nella storia di una terra, e della sua gente, che nessuno ha mai provato a farla sentire italiana, a farla sentire necessaria al futuro del Paese.  Una terra annessa all’Italia come una colonia, non accolta come farebbe una madre adottiva con un figlio che ha voluto e che dovrebbe integrare a se con proposte e modelli credibili, e non con l’abbandono a logiche di potere tollerate per mera opportunità elettorale. Una terra in cui la legge dello Stato veniva imposta senza seguire il sentiero della reciproca conoscenza. Senza  mediare un percorso di condivisione, in grado di traghettare le consuetudini e gli antichi retaggi verso una legalità intimamente assunta.

Un lunghissimo corso di anni in cui la politica nazionale ha usato un serbatoio elettorale fondato su potentati locali, inamovibili - non importa se collusi a organizzazioni mafiose o meno - i quali non hanno fatto altro che assicurare la perpetuazione di un sistema romano di comodo, in cambio della gestione politica dei finanziamenti al Sud.  Finanziamenti che dovevano necessariamente naufragare nell’insuccesso. Un fallimento cosciente, perchè espresso nella consapevolezza  che solo nella gestione dei pacchetti di consenso e nella sussistenza del bisogno, del degrado sociale, della carenza dei servizi il potere si sarebbe potuto perpetuare  nel tempo.

Una condizione tale che si è trasformata in  abitudine fino a che il sentire più diffuso è che tale stato di cose non si possa cambiare. Un risultato per una  strategia vincente, che nella sua paradossalità, ha fatto si che politici  emergenti, al di là del simbolo e dello schieramento, disponessero di una cospicua riserva di elettori che avevano bisogno di loro. Elettori che chiedono, che sperano in una soluzione a problemi che non saranno mai risolti completamente perchè solo in un sistema così articolato e complesso chi ha il potere potrà autoreferenziarsi come un buon politico, lasciando aperti spazi per un ulteriore parziale intervento.

A chi governa di poter recitare la parte del buono e dispensare finanziamenti che sono finiti ovunque, ma non a migliorare le cose. A chi è all’opposizione di poter accusare la maggioranza di incapacità ad ogni occasione solo perchè momentaneamente escluso dalla gestione. Oggi si cerca di ritenere un’emergenza l’assenza di una normalità che non è mai stata tale. Siamo vissuti per anni nell’emergenza continua nelle scuole, nelle corsie degli ospedali, nei servizi e nelle strade. Abbiamo già trasformato la nostra emergenza quotidiana in una normalità incomprensibile per molti non calabresi.
 
Per questo, credo, che ancora oggi la vera emergenza da raggiungere sia conquistare, con una lotta di civiltà, la normalità. Quella condizione sufficiente di ordine condiviso necessario per garantire efficienza dei servizi, governabilità, credibilità, impegno e trasparenza nell’amministrazione della regione e degli enti. La normalità di poter disporre delle stesse opportunità che le altre comunità del Paese si sono costruite, verso le quali si rivolgono i calabresi più disperati sperando di modificare il proprio futuro, o quelli che ne hanno le possibilità economiche per accedere a servizi migliori. Una normalità che non si conquista con una ennesima, urgente, militarizzazione già vissuta in passato e trasformatasi in abitudine perchè estranea ad ogni processo di ricondizionamento della vita pubblica della regione.

Tuttavia, in quest’ottica di emergenza, potremmo anche aprire un credito all’intervento straordinario. Ma a una condizione. E, cioè, che la presenza di forze e cariche straordinarie sia percepita come  un sostegno non solo ad operazioni di polizia, ma all’ avvio delle opere di infrastrutturazione, alla lotta concreta alla corruzione, all’ottenimento, e garanzia, di servizi efficienti. Un aiuto alla conquista di una normalità come valore di legalità e di consenso verso le Istituzioni  per proteggere materialmente una volontà concreta di risanamento, per isolare e sconfiggere coloro i quali, dalle loro prospettive, politiche o meno, hanno preferito per molto, troppo tempo, far si che le cose rimanessero tali, che sopravvivessero all’interno di una normale… emergenza.

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