Da sempre, per la nostra comunità a vocazione cattolica, sembra che essere ultimi sia una necessità storica derivata da una altrettanto necessità teologica di dimostrare che la parabola evangelica sia realmente una verità più terrena che non celeste sperando che, prima o poi, saremo primi. Per questo, mediando fra una volontà di restare dietro nelle classifiche delle eccellenze e la tentazione di orientarsi con uno slancio neo-calvinista verso un’imprenditoria diffusa che sappia trovare nell’uso corretto della propria ricchezza delle idee e delle capacità produttive le ragioni del successo, alla fine non si riesce a superare la barriera dell’immobilità dei fattori produttivi e delle risorse, vittime, entrambe, di un’inibizione storica di difficile cura, nonostante ne siano ormai note le cause economiche, e di conseguenza politiche.
E, allora, in un ferragosto che si approssima, fra un riposizionamento delle forze politiche e cambiamenti di gestione, fra obiettivi mancati, promessi o meno, ma dalla provvisorietà tutta calabrese, nella gara delle opportunità e delle capacità di ogni singola regione europea, ci ritroviamo immancabilmente, inesorabilmente ultimi. Ultimi, ovvero, se vogliamo, prima regione dell’Unione europea a saldo negativo circa le percentuali di disoccupazione. O, ancora, se crediamo che cambiando i termini possiamo modificarne i risultati statistici, prima regione europea a maggior distanza fra domanda di lavoro ed offerta, detentrice di un suo indiscusso 24,8% quale dato limite, contro un Trentino Alto Adige al 3% quale valore massimo.
Ora, abbandonando qualunque velleità di ridisegnare una mappa delle job opportunity nazionali e locali, e senza chiederci per dignitoso orgoglio perché il Trentino esprima performance più adeguate certo è che non riuscendo a valutare direttamente, sul campo, la reale situazione dell’occupazione ci si rivolge all’Unione europea con i dati di Eurostat. Certo. Si potrà rispondere, quasi come se fosse una difesa plausibile, che anche il Nord del Paese soffre di un andamento non felice dell’occupazione.
Ma la fine dell’emigrazione dal Sud e il mancato decollo delle economie locali, bloccate su una rigida disponibilità di capitali e su classi d’impresa permeabili all’accesso, non incide al Nord, favorito, questo, da politiche flessibili che rimodulano l’offerta di lavoro, e alimentano la domanda, attraverso un modello produttivo capace di interloquire con il mercato impiegando, in termini diffusi e di facilità di accesso, i capitali disponibili. Flessibilità al Nord e rigidità al Sud dei fattori produttivi depotenziano al Sud qualunque politica fondata su incentivi o altri sostegni che perdono la loro utilità iniziale nei limiti temporali dell’aiuto, nell’immediato e scarso utilizzo delle risorse oltre ogni ipotesi di progettualità persa in politiche di fine piuttosto che in politiche di scopo. E, così, fra un rimpasto ed un altro, fra un po’di sole ed un’estate dispettosa, l’essere ultimi non sembra toccare ancora una volta la nostra dignità.