In un tempo non molto lontano, in una regione non molto lontana, di un Paese non tanto distante ci si chiedeva perché il senso del giusto, ovvero la comune interpretazione di cosa sia legale o illegale venisse sottratto al dibattito pubblico e affidato solo a punti di vista, e non solo tali, di alcuni “esperti”. Che ciò avvenisse ed avvenga in comunità complesse per storia e per cultura non sarebbe una novità.
E non è una novità il fatto che l’arroganza criminale giungesse anche ad influenzare l’andamento di una consultazione elettorale, fermo restando che nessuna organizzazione criminale ha in se i colori di un partito, ma è policentrica per metodo e obiettivi ponendosi al di fuori delle singole lotte di parte non essendo il “dato” politico ciò che interessa ma il possibile risultato. In passato un sistema clientelare, definito e dimostrato, ha espresso se stesso, attraverso modi e con metodi incontrovertibili, dominando le scene di alcuni comuni senza che statisticamente il numero dei comuni “sciolti” raggiungesse quello odierno.
Nessuna novità insomma nella storia dell’andamento amministrativo. Molte, però, da pensare sull’elevato ricorso oggi a tale strumento. Di fronte a ciò due sembrano le riflessioni da fare: La prima se, posta la maggioranza che indica il vincitore, vi sia una capacità intimidatrice tale da coartare la volontà dell’elettore in modo così ampio da condizionare l’andamento dei flussi elettorali al punto da far si che la rete delle probabili compiacenze coinvolga intere popolazioni. La seconda, se non fosse il caso di definire l’inquinamento ambientale dimostrandolo su base oggettiva, ovvero sulla reale individuazione della fattispecie delittuosa a cui si fa riferimento attribuendo ad un’analisi “sociologica” dell’andamento del voto e delle intenzioni dell’elettorato un utile significato interpretativo.
Prescindere da simili posizioni di metodo rischia di far sospendere un diritto, quello di voto, nei fatti annullando le volontà espresse e trasformando una democrazia reale in una sorta di democrazia amministrata. Se così fosse, allora, ci si dovrebbe mettere d’accordo su altri due aspetti. Il primo, se sia necessario porre condizioni e limiti alla candidabilità, con riforme di principio sul diritto di elettorato attivo e passivo, magari non valido solo per alcune regioni, e ciò dovrebbe giustificarsi con un modello democratico che punta sulla garanzia delle libertà civili. Il secondo, corollario del primo, se sia altrettanto necessario definire un ulteriore quadro normativo che consenta di poter controllare preventivamente le liste da parte di organi preposti, ma anche qui si rischierebbe di attribuire ad altri la possibilità di condizionare comunque la scelta dei candidati, l’andamento delle consultazioni medesime e, quindi, la volontà dell’elettorato.
Tra le due rimane percorribile una strada di buon senso: definire in termini oggettivi attribuzioni specifiche e personali di reità o correità. Attribuzioni specifiche e personali, dalle quali poi, semmai, partire per ricostruire un quadro di illiceità che eviti una presunzione di colpevolezza che, se non concretizzata in risultati, si pone come ulteriore limite ad ogni tentativo di far crescere con responsabilità e fiducia, sulla base del diritto e dei diritti, le nostre comunità.