Le foto delle strade interrotte nella locride, le immagini di un territorio che soffre delle intensità delle precipitazioni piovose o che si confronta con una neve che imbianca in una stagione che, in verità, altro non potrebbe fare, ci riportano ogni volta con i piedi per terra, se questa non cede al nostro passaggio.
E non è solo perché ci troviamo costretti a confrontarci con una particolare conformazione idrogeologica ma perché, se siamo onesti con noi stessi, ci rendiamo conto che forse qualche aiuto al cosiddetto dissesto del territorio lo abbiamo dato nel corso degli anni e, probabilmente, ancora oggi. Non sarà mancata l’occasione ad ognuno di noi di calpestare strade o terreni per capire che, forse, c’è qualcosa che non ritorna nelle stesse opere che crollano, che si dissolvono come se fossero fatte di cartapesta ogni qualvolta il clima ci ricorda che il suo comportamento non rientra nella decisione degli uomini. Eppure, di fronte a ciò, gli uomini hanno il dovere verso se stessi di governare i rischi e, per fare questo, la regola è sempre la stessa: il rispetto del territorio.
Stati di calamità, emergenze perdono il loro valore di eccezionalità diventando una sorta di reiterata ricerca di giustificazioni di un ordinario diventato straordinariamente troppo frequente nei disastri come nei drammi. Un quotidiano dove la stessa ordinarietà climatica di un inverno, forse più rigido degli altri, sembra quasi voler farci dichiarare una sorta di resa alle forze della natura. Forze, queste ultime, le quali, se possono fare affidamento anche sull’incuria, sull’inerzia e sull’approssimazione umana nell’organizzare un territorio - o apprestare con dovizia le opere a sostegno della vita quotidiana - di certo trovano ben pochi ostacoli all’esprimere tutta la loto potenza distruttiva. Chi percorre le strade dell’entroterra della locride come del litorale non avrà difficoltà a notare quanto lo stato di abbandono sia l’evidente specchio di una sensibilità assente, la premessa di una resa al maltempo. Non sarà difficile notare, in ciò che rimane in molti casi, la qualità dello stato d’uso o di manutenzione senza entrare nel merito delle modalità costruttive e nella scelta dei materiali.
Del come guardando gli asfalti che si innalzano verso il cielo, o le voragini che lasciano vuoti al di sotto di loro, portino alla luce criticità strutturali. L’inverno così gelido e piovoso ha la responsabilità di rendere ogni anno sempre più chiari gli insuccessi di gestione del territorio perché, come coscienza vuole, è l’emergenza che mette in gioco, che verifica le capacità, che dimostra la qualità o meno di ciò che si è fatto, di ciò che si fa e di cosa si potrà fare in futuro. Una vecchia storia che si ripresenta ormai troppo frequentemente e in ogni stagione e che, al di là delle ragioni dei cambiamenti climatici, ha fatto si che non ci sia più nulla di ordinario nelle nostre terre della straordinarietà di ogni fenomeno metereologico, pioggia o neve nonostante. Una considerazione che lascia l’amaro dei nonni e dei loro tratturi, o dei muretti a secco fatti dovunque senza costosissime progettazioni o consulenze tecniche, ma con il buon senso di chi viveva il territorio e ne conosceva le caratteristiche.
Dovremmo imparare dal passato, ma ci ostiniamo a non farlo perché costa, soprattutto, fatica. La natura è di per se imprevedibile. Ma è l’imprevedibilità quel vero presupposto a cui ogni attenta, puntuale, cosciente e responsabile pianificazione e progettazione di ogni opera dovrebbe guardare, e soprattutto lavorare per contenerne gli effetti.