Chissà quante volte ognuno di noi si è sentito fare un predicozzo sulla memoria, sull’identità, sulle radici, ovvero sull’esistenza e sull’importanza di avere un sentimento di appartenenza vivo nel proprio animo. Oppure, chissà quante volte ci siamo rifugiati, non paghi del presente che ci circonda, nella riflessione di circostanza che, in fondo, siamo “cittadini del mondo”; cioè anime senza confini che vagano in libertà senza aver bisogno di riconoscersi in nulla se non in noi stessi e nel piccolo universo che ci siamo costruiti. Così come abbiamo da sempre celebrato l’emigrazione come una patologia sociale attraverso la quale si è abbandonata l’amata terra per fare fortuna, andare oltre il limite del paesino per poi celebrare ricordi di tristi abbandoni o malinconiche esternazioni da esuli nostro malgrado.
Ebbene, di fronte a tali stati d’animo, a cui neanche chi prova a scrivere oggi vi è sfuggito nel corso degli anni, credo che sia utile raccontare un episodio recentissimo. Un pomeriggio d’estate qualunque, in una città del Nord qualunque, dopo una qualunque ora di sport, finisci la tua lezione e arrivano due ragazze per la lezione dell’ora successiva. Una di queste risponde alla domanda dell’istruttore con un cognome tipicamente calabrese. Ovviamente da calabrese quale io sono, l’ulteriore curiosità diventa spontanea. Chiedo se per caso fosse di…piuttosto che di… e la risposta è una precisazione necessaria: si il papa proveniva da un comune calabrese della Piana di Gioia Tauro, ma lei non c’era mai stata. Un comune, quello del padre, che chi scrive conosce benissimo e che ne ha apprezzato da ragazzo non solo gli abitanti, ma soprattutto i prodotti che lo distinguevano oltre a quanto rimane del Castello. Provando a decantare i pregi di questo ridente paesino a ridosso delle prime montagne dell’Aspromonte tirrenico, profumi, ottimi liquori, la risposta è perentoria: Guardi non lo conosco, non ci sono mai stata.
Ora, probabilmente le motivazioni potrebbero essere diverse e anche giustificabili. In assenza di un approfondimento ritenuto non necessario per il luogo, ho cercato di comprendere cosa potesse celare una risposta che, in verità, non mi meravigliava più di tanto avendo già in passato potuto osservare come e in che termini venisse celato o si glissasse sulle proprie origini da parte di altri calabresi emigrati fuori regione. Una cosa è certa. Non tutti amano la propria terra e non tutti la raccontano a quanto pare, neanche i padri ai loro figli. La verità, insomma, è che vi è chi conserva il ricordo nell’anima ma ne rimuove l’appartenenza per comodità, chi se ne vergogna per motivazioni proprie e chi ritiene di essere ormai pienamente settentrionale considerando l’origine del/dei genitore/i o il cognome solo un accidente della vita che va superato magari eliminando ogni accento linguistico che possa ricondurre l’eventuale interlocutore a considerarne le origini. Ciò non mi sorprende affatto perché in molti al di fuori della regione, ma anche nella stessa Calabria, non hanno radici. Non manifestano un sentimento di identità che li renda vivi.
Non portano ricordi con sé e se lo fanno spesso sono negativi. Di fonte a tali obiettive manifestazioni di consapevole distacco e per rispondere ad una simile diffusa disaffezione una cosa è certa: bisogna essere convinti che la Calabria è la terra dei nostri padri. Ma per fare questo, e invertire un trend di misconoscenza se non di vero rifiuto, diventa necessario approfondire usi e costumi, promuovere luoghi e culture facendo si che quanto di negativo ci ha contraddistinto non sia un alibi per giustificare animosità altrui. Ovvero, bisognerebbe essere capaci di far si che ciò che giustifica il distacco si possa disperdere in una memoria storica collettiva. Una memoria a cui ricondurre soprattutto le giovani generazioni che, per ragioni diverse, anche in Calabria, e non solo fuori, vivono nel disinteresse la storia bella o brutta delle proprie famiglie e celebrano, in una sorta di nemesi dantesca del rifiuto di se stessi, quelle altrui invece di trarre dal passato motivi di successo o l’orgoglio di essere riusciti a cambiare quanto di negativo vorremmo comodamente esorcizzare. Magari cambiando solo l’accento del nostro dire.