Affrontare un argomento che avrebbe in sé i contenuti di una agevole descrizione dei rapporti tra autorità nazionali e autorità locali dovrebbe essere semplice, se non addirittura sin troppo chiaro, nel definire come e in che misura l’azione di governo si svolge tra le varie espressioni dell’organizzazione politico-amministrativa di un Paese.
Eppure, affrontare un simile esercizio riferendoci alla Calabria diventa complesso, difficile, non scontato nei risultati e nell’individuazione dei limiti di autonomia garantiti dalla Costituzione. E, questo, perché i commissariamenti di molti comuni hanno dimostrato, in alcuni casi, la fragilità di società che hanno assunto su di sé come corpo elettorale le difficoltà di un voto scevro da condizionamenti. Ma non solo. Vi è anche una sorta di ormai quasi irreparabile mancanza di fiducia tra Stato e comunità locali dove ogni espressione di voto, per quanto essa possa essere libera almeno nelle sue manifestazioni esteriori e sino a prova contraria, è messa in discussione prim’ancora che una amministrazione possa avviarsi a misurarsi con il mandato ricevuto. Nessuno, credo, metterebbe in dubbio che la vita istituzionale sia fatta non solo di regole, ma anche di prassi consolidate che tendono a regolare i rapporti tra enti locali e organi dello Stato.
Tuttavia, vi sono anche ragioni di opportunità che magari dovrebbero suggerire prassi diverse per due motivi. Il primo, perché a volte è necessario che chi rappresenta lo Stato si ponga sullo stesso piano di valore di chi è espressione di una, seppur locale, sovranità di voto rappresentata dal suo corpo elettorale. Il secondo, perché al di là della possibile messa in discussione di un risultato, ogni manifestazione di dubbio preventivamente o precondizionatamente posta in essere mette a rischio, ancora una volta, quella necessaria fiducia che andrebbe riconosciuta, pur con beneficio di inventario si potrebbe dire, nei confronti di chi si appresta ad amministrare. Vi è poi una terza. Ed è forse quella più difficile da individuare o da comprendere. Ed è nella capacità di chi si è assunto, liberamente, l’impegno di guidare un’amministrazione pubblica di dimostrare sin dall’inizio di non avere riserve sul suo elettorato.
In questi tre aspetti si gioca l’esistenza di un rapporto di rispetto e credibilità reciproca tra Stato e comuni in Calabria, di vera ed obiettiva pari dignità tra modi di governare che rendendo protagonisti tutti gli attori senza sovraordinare punti di vista che soddisfano un pensiero unico per il quale ogni manifestazione politica sia ormai da intendere in Calabra come criminalmente contaminata a prescindere. Insomma, credo che nessuno neghi il diritto della Commissione Antimafia di poter convocare a ragione dei propri compiti chiunque compresi i sindaci neoeletti a Roma per avere, in quest'ultimo caso, garanzie dirette sulla genuinità del voto e, quindi, sulla libertà di espressione del consenso da parte del corpo elettorale. Tuttavia, ancorché si sia trattato di prassi, credo che il politicamente e istituzionalmente corretto avrebbe dovuto suggerire una controproposta di invito formulata da parte delle nuove amministrazioni alla Commissione a partecipare ad un Consiglio Comunale aperto.
Un modo per affermare la sovranità e il diritto dei cittadini, quindi, di essere partecipi del pensiero e dei dubbi della Commissione, semmai ve ne fossero, offrendo loro la possibilità di intervenire e ai neosindaci di rispondere alla Commissione in presa diretta di fronte ai propri elettori. Questo leale e direi opportuno capovolgimento dei termini di relazione avrebbe offerto due possibilità: ai Sindaci di affermare il diritto di iniziare ad amministrare contro ogni pre-giudizio; alla Commissione antimafia di mettere al centro i cittadini e il loro diritto di voto e la dignità di essere corpo elettorale. Ma si sarebbe offerta anche una terza occasione, forse più importante per avviare un percorso di dialogo vero, e questa si chiama fiducia istituzionale.