L’inizio di ogni nuovo anno, contrariamente alla fine di quelli passati che coincide con una sorta di necessità di bilancio, si apre sempre con una serie di buoni propositi. Ognuno di noi, infatti, cerca di archiviare quanto di spiacevole è accaduto nei mesi trascorsi o tenta di capitalizzare i migliori risultati ottenuti. Se dovessimo essere sinceri con noi stessi potremmo dire che, al di là delle solite attenzioni mediatiche nei confronti della Calabria e della locride, il 2017 non è stato particolarmente generoso.
In fondo, oltre le autocelebrazioni di circostanza per le quali siamo tutti bravi, non credo vi siano segnali di controtendenza sia sul piano oggettivo di una migliore valutazione delle possibilità economiche di rilancio di una terra e delle sue peculiarità, né da un punto di vista amministrativo poiché mi sembra che si siano modificati degli assetti ormai cronici nell’ambito dell’offerta sanitaria o dei trasporti per non sconfinare in quel settore multifunzione, ma fondamentale, dei “servizi al cittadino”. Se nulla cambia, allora, due sono le ragioni: o in fondo ciò è ritenuto uno stile di vita che ci aggrada, ovvero che ci soddisfa, oppure siamo riusciti a trasformare negli anni la rassegnazione in una sorta di efficace regola di sopravvivenza.
Ora, al di là di tali riflessioni molto generali, vi è un aspetto che però torna in tutta la sua drammaticità e che, in realtà, non sembra essere valutato nella sua pienezza e nei suoi risultati: la fuga dei giovani. Si, fuga. Attenzione, non migrazione per necessità, poiché ciò implicherebbe un legame con la propria terra che non si elimina per disaffezione, ma fuga. Ovvero, l’abbandono voluto, ragionato, consapevole di una identità e di un legame con i luoghi e la relativa cultura quest’ultima non percepita più come propria. Probabilmente qualcuno non crederà in questa descrizione o, meglio, e sarebbe una consolazione, riterrà che non sia così e il semplice pensiero che tale convinzione possa sopravvivere è già un motivo di speranza. Tuttavia, non solo molti giovani fuggono dalla Calabria e dalla locride, ma manifestano anche il desiderio non tornarvi in futuro. Non vorrei andare sul piano della sconfitta dei nostri modelli familistici o amministrativi, se non anche culturali.
Credo, però, che se ognuno di noi fosse intellettualmente onesto con se stesso potrebbe indicare molti casi che rientrano in questo triste quadro. Ciò che sorprende è che, al di là delle analisi statistiche sui fenomeni migratori, non vi sia una indagine sui motivi delle “fughe” diretta a valutare il grado di disaffezione e i motivi. Così come, essendo la fascia d’età post-diploma quella più manifestamente interessata, non si comprende come mai – pur comprendendo la volontà di fare nuove esperienze – non vi sia uno studio rivolto a verificare il perché molti giovani calabresi preferiscono, nonostante siano presenti in Calabria ben tre rettorati universitari (più del Piemonte che ne ha solo due per una popolazione che è il triplo di quella calabrese) - la fuga verso altri atenei; una realtà, questa, con la quale non si può non fare i conti.
Disaffezione, fuga di cervelli ancora in erba che non ritorneranno mai più, chiusura quasi radicale con una calabresità che per molti diventa scomoda e si cerca di dissimulare con un accento diverso o con una semantica che soddisfi altre latitudini culturali sembra essere il nuovo prezzo della nostra distanza dal resto d’Italia e d’Europa. Un prezzo che, oltre le illusioni di uno sviluppo delle opportunità economiche, rende ancor più grave il divario umano e culturale che ci separa da coloro che, molto intelligentemente, i nostri giovani li motivano e li integrano più di quanto non faccia la loro terra.