Anche questa settimana diventa difficile non soffermarsi sulle acrobazie elettorali. Direi che forse più di un funambolico circo delle intenzioni, sembra di vivere l’esibizione di convinti prestigiatori di anime e di programmi, semmai ve ne fossero. Soprattutto, e questo mi piace di più, è che ognuno, candidati esclusi compresi, non pone l’argomento del tenzone su ciò che ha fatto o avrebbe potuto fare, ma ne fa solo una questione di fedeltà al Re se inclusi nelle liste o di lesa propria maestà per i meno fortunati.
Il tutto… tra tante maestà di partito. Ora, sbracciarsi per essere stati esclusi, o rallegrarsi per aver potuto entrare nel gioco di una politica da risiko, le manifestazioni poste in essere di dissenso o consenso mi sembrano a dir poco velleitarie e per due ragioni. La prima è rappresentata dal fatto che le condizioni della Regione e della locride parlano da sole. Al di là delle parole sparse al vento magnogreco della drammaturgia politica quotidiana, si può osservare come, esclusi o predestinati, sembrano celebrare se stessi piuttosto che mettere in campo idee e soluzioni, come dico da anni, concrete e soprattutto, soprattutto dico, misurabili, ovvero verificabili in concreto. Ognuno, ancora una volta, ha qualcosa da promettere o da recriminare, ma che si tratti dell’una o dell’altra intenzione, non credo che ciò abbia mosso di un centimetro il futuro della nostra terra sino a ieri, o dia speranze domani a quanti vorrebbero un pò più di sincerità e di qualità della vita politica da parte di coloro che pretendono di volerla condurre.
La seconda, è data dal fatto che non vi sono spazi per garantire un pensiero indipendente. Un pensiero, questo, rivolto a contrapporsi alle logiche partitocratiche così tanto vituperate, ma che alla fine sono quelle che rimangono in piedi e che macinano nelle loro spire anche coloro, gli esclusi, che dopo essersene serviti ieri, oggi le denunciano poiché vittime del momento. La verità è che, alla fine, la politica non dovrebbe più essere considerata una carriera, meno che mai una capitalizzazione di posti. Essa è, ma forse dovrebbe essere ovunque in Italia, servizio, umiltà di capire i propri limiti e riconoscere se non il valore almeno la bontà delle idee altrui, se queste idee si presentano come argomenti capaci di modificare la qualità della vita dei cittadini.
Dalle dichiarazioni generaliste alle populistiche autocelebrazioni di sé, ancora una volta non si leggono altro, rispetto a quanto vorremmo, che celebrazioni di luoghi comuni. Non vi è, insomma, una onesta volontà di aprirsi al dubbio, ma si ripercorrono strade di comode certezze che non trovano alcun riscontro nella vita quotidiana ma che si perdono, con efficacia purtroppo, nelle dichiarazioni di circostanza o nella sapiente costruzione del consenso, dove ogni candidato escluso o incluso si offre come paladino di un bisogno altrui. Bisogno che si anemizza nelle promesse di sempre. Capisco, però, la delusione dei giovani, senza alcuna distinzione di colore politico. Giovani ancorati ad un visione romantica di partito più dei loro stessi dominus. Il loro errore è quello di aver accettato le logiche partitocratiche, di aver creduto che in qualche misura potessero essere percorse per poterle utilizzare come strumento di cambiamento.
Ma il cambiamento implica non regole rigide di segreterie, ma confronti aperti sul futuro, su come costruirlo e come poterlo realizzare man mano attraverso una partecipazione allargata. Ovvero, attraverso le esperienze e non le progressioni di carriera politica in strutture che ormai non hanno alcun senso se non conservare, ancora una volta, un effimero potere personale e soddisfare un chiaro bisogno di protagonismo.