Ogni tanto alcune parole ritornano come certi vissuti che accompagnano la nostra vita, il nostro modo di fare e anche le nostre speranze. In politica i programmi valgono delle stagioni, alcune frasi si trasformano in citazioni buone per ogni occasione e alcune idee vengono collocate all’interno di un cilindro dal quale farle uscire, magari senza prenderle per le orecchie, allorquando i momenti sono maturi o, forse, quando l’attenzione di qualcuno si è così attenuata da non far caso al domani.
Così accade per la parola federalismo che, ben lontano da attribuire un significato a tutto tondo in chiave riformistica, essa si è ripresa la sua scena qualche mese fa in un referendum di due regioni italiane che oggi sembra essere passato alle corti di Morfeo, forse perché la distanza fisica potrebbe salvare chi alle nostre latitudini sonnecchia. Ebbene, non sembra vero che da un sonno ci si risvegli con la volontà altrui di trasformare in realtà l’idea di un possibile federalismo considerato nei termini che i promotori dei due referendum regionali avevano annunciato: la rivisitazione del gettito complessivo delle tasse versate dalle due regioni allo Stato e la riduzione delle compensazioni che mutuavano le diverse capacità di spesa e di servizi di altre regioni meno capaci o a minor partecipazione fiscale.
Ora, che tale pensiero prima o poi potesse trasformarsi in una realtà giuridicamente possibile non mi è mai sembrato qualcosa da sottovalutare. Ciò che mi lascia perplesso è che, ancora una volta, presi come siamo dalle avventure quotidiane del potere di provincia, tutto questo a chi amministra sembra ancora un’ipotesi lontana o azzardata. Nulla di più errato. Ma, soprattutto, nulla di più ingiustificabile nella incapacità di vedere cosa ci riserverà il futuro. Certo, siamo tutti contenti delle diverse e dignitose start-up promosse da un ateneo della regione di cui si è letto ad ampie pagine. Tuttavia la realtà di ogni giorno forse ha bisogno anche di altro. Sanità e trasporti, come altri servizi essenziali ad esempio, hanno dei costi che superano il limite del contingente, che si affidano ad una continuità e capacità amministrativa che va ben oltre l’idea di un progetto.
Probabilmente tutto questo non preoccupa l’esangue sanità calabrese, e forse non preoccupa chi, come scrivo da tempo, sorvola su tali temi dal momento che ognuno crede di poter contare sulla benevolenza dell’amico medico che lavora altrove. Ma se c’è una cosa che sanità e trasporti - ma ciò sarebbe valido per l’istruzione, il rilancio della produzione agricola piuttosto che della piccola manifattura per non parlare del turismo - denotano nella loro possibile efficienza è quella di essere i migliori argomenti attraverso i quali dimostrare il livello di qualità della vita di una terra. Probabilmente saremo capaci di sopravvivere anche ad un taglio del gettito statale verso le nostre casse.
E, forse, saremo capaci di aggiustare il tiro guardando a quanto, in fondo, abbiamo realizzato ieri o alla fortuna di poterci proiettare in altri lidi in cerca di miglior fortuna. Ma abbandonare, seppur senza andarsene, anche solo intellettualmente, oltre che politicamente, la propria terra non credo che sia dimostrazione di dignità. Fare della rassegnazione una virtù è ormai un esercizio che stanca, a cui non ci crede più nessuno e verso il quale nessuno aprirà più crediti compensativi o di solidarietà. Forse dovremmo essere federalisti a nostra volta, nel nostro quotidiano e fare del meridionalismo solo un’occasione interpretativa e di analisi storica, e non più un alibi a cui ricorrere quando non si hanno risposte o non si hanno argomenti per rispondere alle decisioni altrui.