Potevo utilizzare un titolo già particolarmente caro alla letteratura cinematografica italiana sublimato nelle scene e nei dialoghi dall’estro di un neorealista come Nanni Loy, ovvero Viaggio in seconda classe. Ma in una epoca in cui le classi si misurano nell’accesso alle opportunità di una promozione trovata online, alla fine non vi sono steccati dettati dalla qualità del treno o della carrozza che impediscono di osservare o di ascoltare i dialoghi del tuo compagno di viaggio.
E così, ogni viaggio calabrese verso Roma e oltre permette di misurare, tra una poltrona e l’altra, una umanità liquidamente -prendo in prestito un termine caro a Bauman- in movimento che offre spunti interessanti di approfondimento sull’animus complessivo dei viaggiatori. Tra espressioni dialettali dettate dalla necessità di mediare tra un senso di appartenenza ed una filologia aulica di un italiano calabresizzato -ma che presenta la sua versione della nuova appartenenza, un pò come coloro che abbandonando il perfetto inglese non vanno oltre il dialetto anglicizzato- l’orecchio fa i suoi capricci non avendo barriere di ascolto che soddisfino diritti di privacy. E allora, viaggiando da Sud verso le capitali d’Italia, ovvero per le città che sembrano essere state da tempo mete di riscatto e di riqualificazione di se stessi, vi è una calabresità borghese e studentesca che si muove giorno per giorno, mese per mese e anno per anno raccontando, seguendo il tempo del treno, le proprie capacità di successo. Successo, riscatto, eleganze da ritrovare e ambizioni da realizzare che superano, nei discorsi, le difficoltà di una terra che sembra non riguardarli più se non nel ricordo dei genitori o delle vite vissute attendendo il momento di approdare ad altri lidi.
Signore ben vestite, signori griffati da professionisti manager senza brand che assumono le sembianze dell’uomo da copertina. Persone che viaggiano senza pace verso la nuova patria, ritornando e allontanandosi periodicamente dalla propria terra in un gioco di amore e odio che si alterna nel soggiorno nel quale manifestare tutta la loro romanità o milanesità, ritenendo che ormai ciò che li circonda non li riguardi più man mano che ci si allontana da quelle stazioni che ognuno di noi conosce a memoria. In questi viaggi in alta velocità di seconda scelta - tra riscattati o nobili borghesi dell’ultima ora - ci si rende conto del come, in fondo, la Calabria rimanga nei loro discorsi solo un accidente storico e culturale nel quale tornare per debito di origine se non per ostentare la diversità di censo raggiunta, ma non per volontà di mutarne il corso.
Un pensiero che si misura ascoltando i discorsi delle benpensanti del mattino, lettrici di Cosmopolitan o di Vogue, occupate a descrivere la loro vita di qualità nell’altrove d’Italia e de-scrittrici senza penna e quaderno di un amarcord tutto loro da libro Cuore per adulti compiuti; un libro scritto a parole privo dell’animus del bambino calabrese caro a De Amicis. In questa borghesizzazione ormai consolidatasi negli anni del calabrese forestiero di se stesso, si consuma con l’interesse del ricordo il vanto della propria nuova vita edulcorata dal bisogno, lasciando che la Calabria rimanga governata da una sorta di immortale neofeudale principio del dominus del territorio. Un dominus che ritiene di poter imperare senza tempo, facendo si che gli esuli di buona famiglia e di buon reddito, soddisfino il proprio essere godendo di ciò che la regione offre loro ma, per carità, con la tacita richiesta - nei modi e nei fatti - di non guardare ai difetti quotidiani, ma di accontentarsi comodamente solo di quei motivi che giustifichino un ritorno, un soggiorno, che soddisfino una calabresità temporanea a cui si garantisce l’ospitalità del sorriso, ma che si spera sempre che questa duri il meno possibile soprattutto se ha l’ardire, raro, di essere portatrice di idee.
Un patto non scritto, ma necessario tra chi governa o sopravvive di politica. Un patto non scritto tra coloro che sperano che le concorrenze non maturino e coloro che si nobilitano della sua nuova vita solo per tuffarsi in una quotidianità temporanea il tempo sufficiente per farsi riconoscere, manifestare o esternare il proprio successo, per soddisfare quel minimo senso di vanità a cui tutti, in fondo, teniamo così tanto. Convinto da ciò che ascolto, mi ricordo un passaggio di Alvaro per il quale […] “…La dignità è al sommo di tutti pensieri ed è il lato positivo dei calabresi…”[…]. Una frase che nel rispetto dell’Autore, alla fine, rimane una utopistica dichiarazione di fiducia verso chi la dignità la baratta con la necessità del rispetto utilitaristico del potere dominante o la strenua ricerca dell’ego del momento. Continuo il mio viaggio!