Non vorrei iniziare la settimana con un commento pretenzioso al punto tale da suscitare qualche pensiero sull’intenzione di dimostrare ciò che non sono: uno snob. Tuttavia credo che qualche piccola provocazione sia sempre utile, per smuovere un pensiero a volte un po’ pigro o, magari,. disattento o finanche ripetitivo nelle sue litanie.
Non è che vorrei trascinare la questione del Sud sul piano dell’assurdo, tipico di un movimento teatrale cui Samuel Beckett ne fu buona espressione. Ma l’aspettare Godot, foss’anche inteso come l’andare e l’aspettare nella sua invenzione semantica, probabilmente riporta l’immaginario su ciò che è e su ciò che non è. Su ciò che ha un senso o su quanto il non senso delle cose si dipana man mano sulle nostre teste convinti, come siamo, di dare significato a momenti della vita quotidiana senza assumere la consapevolezza della loro aleatorietà. Direi di essere molto lontano dal rivedere personaggi come l’Estragone o il Vladimiro beckettiani, ma sono convinto che il nostro ancorare a speranze e a interessi verso il Mezzogiorno a iniziative spot o alla lungimiranza di una politica del presunto fare sia ancora una volta un limite. Non si tratta solo di cultura del Sud, di politica o di economia.
Si tratta della percezione errata del perché qualcuno dovrebbe fare qualcosa per noi. Ora, senza andare molto lontano, e forse fissando i nostri ricordi sul pensiero di chi aveva una idea chiara del nostro futuro, potremmo dire che alla fine quella distinzione tra disoccupazione congiunturale, che colpisce il modello produttivo del Nord, e disoccupazione strutturale, che è tipica del nostro Sud, sia quasi rimasta immutata. Certo, potremmo chiederci quanto potrà durare una congiuntura per quella parte più produttiva del Nord che oggi stenta a riprendere il largo, vittima com’è delle scelte di delocalizzazione degli anni passati. Ma è anche vero che strutturalmente la disoccupazione per noi si è trasformata in una sorta di patologia cronica. Credere nella panacea di una politica meridionalistica non credo sia una strada percorribile con buoni frutti. In fondo al tavolo del Paese ognuno ha conti da presentare e in pochi sarebbero disponibili a scendere a compromessi, per quanto sostenibili, in nome di uno sviluppo equo e solidale.
La verità rimane purtroppo sempre la stessa. Noi consumiamo più di quanta ricchezza siamo capaci a produrre. Il vero rischio che si corre, rimanendo in attesa di qualcuno che pensi a noi, è che alla fine la nostra tipica apatia dell’attesa sena tempo ci condurrà verso una sempre maggiore marginalità. Una periferia dorata per chi potrà contare su rediti sostenuti a vario titolo, almeno sino a che non se ne esauriranno le fonti. Meno per altri destinati ad andare oltre, ovvero ad abbandonare la Calabria. D’altra parte, abbiamo cercato di crearci un protagonismo imitando le logiche politiche di altre esperienze, adattandole ad una visione limitata al nostro lento procedere. Ma non ci siamo resi conto, e non lo facciamo ancora oggi, che qualunque progetto economico, ogni ambito produttivo così come ogni processo di formazione necessitano di una onesta visione di insieme e di una intima conoscenza che pur essendo figlia del passato chiede ogni giorno di guardarsi allo specchio, magari tra una kermesse letteraria e l’altra, avvicinando anche poesia e gastronomia, o preparandosi a presentare il solito premio estivo per eccellenze senza anima e senza progetti.