Nei nostri ricordi di piccoli uomini posti ad una età da quasi ragione a contatto con il mondo reale probabilmente rimangono frasi e passi di opere che non perdono di attualità o che, magari, ci vengono in aiuto allorquando ricerchiamo un termine o una frase che spieghi nella sua semplicità il nostro vissuto.
Accade così con le citazioni dei Vangeli, a cui le nostre mamme tenevano seppur apprese e prese per buone in una messa, o leggendo opere o film che nell’ilarità grottesca ci impongono momenti di riflessione. Nel nostro mondo piccolo, orfano di un Guareschi mai nato al Sud se non nelle vesti di una verghiana interpretazione di un quotidiano antico, diventa quasi un’abitudine rassegnarsi all’essere o sentirsi periferie di un mondo che di periferie ne ha, siamo onesti, poche o, se le ha, se ne ricorda solo quando servono.
Ora al di là delle polemiche sempre aperte e votate a celebrare virtù che sembrano diffuse, ma che in fondo lo sono meno, la questione degli ultimi ci avvicina ad un pensiero estremo che ci porta, al Sud, inesorabilmente verso l’idea della virtuosità, apparente se fossimo sinceri, di fare dei nostri limiti una sorta di cifra distintiva. Una cifra che dovrebbe permetterci di poter alzare il prezzo delle nostre incapacità, della nostra indolenza o, se volessimo, dei nostri piccoli egoismi che si manifestano nel disinteresse verso ciò che non ci riguarda direttamente come cittadini o, ancor peggio, come singoli individui. Non credo di nascondermi dietro facili pensieri se alla fine credo che in fondo la sindrome degli ultimi si trasformi in alibi, magari di comodo, dal momento che la marginalità garantisce più ragioni di richiesta che non necessita e doveri di impegno. Insomma, abbandonando questi pochi passaggi che non vogliono essere il prodotto di un pensiero sociologico sintetizzatosi in poche righe, credo che la celebrazione dell’ultimo sia diventata una opportunità per mantenere tutto così com’è.
Si è manifestata per un ospedale, si manifesta per i servizi o quando si proclamano i requisiti del prossimo Salvatore della regione come se gli anni trascorsi e le risorse disponibili nel passato non fossero state stati e state più che sufficienti per capovolgere una realtà di fatto che non sembra, nonostante alcuni proclami di ottimismo pre-elettorale, volersi mutare. Certo, comprendo la possibilità di condividere il senso degli ultimi; ma l’ultimo, quello vero, ha anch’esso un sentimento di dignità e di rivincita che gli consente di affrancarsi da una condizione di marginalità per poter raggiungere ciò che ogni ultimo cerca: una migliore qualità della vita e di sentirsi artefice del suo destino.
Credere che l’essere ultimi sia una virtù significa essere convinti che, ad esempio, il pauperismo, di facciata spesso, sia anch’esso una scelta di vita che non condanna alla marginalità ma apre le porte al successo forse in altri mondi. Tuttavia, anche il pauperismo celebrato sugli altari in questi anni ha i suoi limiti dal momento che esso diventa funzionale a quelle forze politiche e di pensiero che sulla difesa, sulla giustificazione della povertà, o nascondendosi dietro di essa, costruiscono la propria base di consenso. Peccato però che giustificare e celebrare la povertà sia in fondo lo strumento migliore per privare quello che è il diritto di ogni uomo: la propria crescita personale, accedere alle opportunità di lavoro e di reddito.
Ma se questo può essere comprensibile per gli ultimi “veri”, non può essere giustificato né per gli ultimi apparenti, né per quelli di comodo, né per coloro che sugli ultimi costruiscono propri percorsi da copertina. Forse è vero che gli ultimi saranno i primi, ma dovremmo essere abbastanza coerenti per capire, una volta per tutte con i Vangeli sul comodino e Guareschi a portata di lettura, che essere ultimo se non può essere una condanna non può nemmeno essere un facile, comodo e redditizio alibi.