C’è una sorta di atmosfera che sembra preludere alle grandi occasioni, alla possibilità che qualcosa possa avvenire a modificare il corso della vita politica di una regione o di una nazione. Ovviamente, l’appuntamento elettorale rappresenta uno degli strumenti cui si affidano le speranze, ma anche le illusioni, che qualcosa possa cambiare. Ora, a breve si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo ed ognuno, candidato, politico di turno o semplice cittadino, si accingerà a dimostrare quanto e in che misura sia concretamente consapevole di che cosa sia l’Europa, al di là delle versioni sovraniste o comunitarie. Ma non solo.
Gli happening europeisti o antieuropeisti sfoggeranno argomenti che sembreranno dimostrare una certa preparazione, critica o a favore non importa, verso ciò che è il processo di integrazione limitandosi o alla bontà dell’euro o alla deriva economico-finanziaria che l’euro, a detta di alcuni, ha determinato impoverendo alcuni Stati o arricchendone altri. Al di là di un’analisi politico-economica sull’impatto dell’euro sulla nostra economia, e al netto delle ragioni che furono alla base della scelta di creare l’eurozona, forse dovremmo fare un esercizio di chiarezza per capire se abbiamo una consapevolezza europea, se ci sentiamo parti di un continente, di una cultura condivisa o semplici isole di un arcipelago di diversità senza alcun ponte in comune da attraversare.
E’ vero! L’idea di Europa è retrocessa, passando dall’essere un’opportunità politica di piena integrazione e solidarietà ad una mera organizzazione economico-commerciale, dove l’aspetto finanziario è diventato l’unico, se non il solo, parametro sul quale misurare l’efficacia di un modello. Potremmo anche essere d’accordo, come scrissi qualche anno fa, sulla riflessione di Claudio Magris per il quale chi “[…] crede nell'Europa sarà contento se si farà ogni tanto un passo avanti e mezzo passo indietro. “[…]. E, potrebbe ancora essere vero ciò che alla fine giustificherebbe le ragioni di una Brexit riflettendo sulle parole di Elisabetta I, prima non seconda, che qualche secolo fa dimostrò di avere bene in mente quale doveva essere il ruolo della Gran Bretagna nel mondo, andando oltre la controfigura thatcheriana, affermando che […] In Europa la tradizione anglosassone sta alla tradizione latina come l'olio sta all'aceto. Ci vogliono entrambi per fare la salsa, altrimenti l'insalata è poco condita […].
La verità è che il condimento dell’Europa, questo collante di valori e culture che avrebbe dovuto legare le nostre comunità in termini di solidarietà, anche con l’adozione dell’euro, sembra non esistere più. E non esiste più né nei cuori sovranisti dell’ultima ora, né nei cuori dell’opportunismo europeista che dell’idea di Europa ne ha fatto solo un veicolo di promozione politica di partito, senza aver alcuna anima in comune con la storia di un’idea nobile, forse troppo per chi si accingerà a voler rappresentare i popoli nel maggio prossimo.
Certo, e mi ripeto nel mio scrivere argomenti già usati ma mortificatamente validi nella misconoscenza che impera, l’Europa di oggi è un’identità politica costruita su presupposti di unità economica. Ma essa doveva essere, invece, il risultato di un’idea ambiziosa, lungimirante, rivolta a ricondurre le diversità della storia in un’unica comunità che si ispirasse a quei valori che sono stati croce e delizia di un percorso millenario. Essa doveva rappresentare il superamento di un dividendo culturale che non avrebbe favorito nessuno al di fuori di una comune tutela del proprio futuro.
L’Europa doveva essere la trasposizione di un’astrazione geografica, la cui concretezza si sarebbe dovuta risolvere nella capacità di porre in essere un protagonismo possibile nella comunità internazionale. Nella volontà di trasformare un’idea di comodo per alcuni in una formula di sintesi ideale, culturale, prim’ancora che economica, per assicurare la sopravvivenza non di un’idea “geografica”, ma di un modello di vita. Se è vero, come ricordava Michael Walzer, che la Comunità, oggi Unione europea, “[…] è l'esempio di un'unione di Stati nazionali che non è né un impero né una federazione, ma una realtà diversa e forse una novità assoluta […]”, è altrettanto condivisibile ciò che disse Jacques Chirac osservando che “[…] la costruzione dell'Europa è un'arte, ed è l'arte del possibile […]”.
Ma ci vogliono uomini e donne, sovranisti e non sovranisti, populisti e non populisti, che si sentano anzitutto europei nei valori e nella storia pur nella diversità dei processi necessari per costruire tale idea. Uomini e donne consapevoli che non è l’opportunismo di un seggio a fare la differenza o a giustificare capovolgimenti di esecutivi nazionali, ma il senso di tante nazioni che si misura con l’anima di una mamma che sta al di sopra di ognuna di esse dopo molte e troppe guerre e sangue versato: l’Europa.