Otto von Habsurg, già europarlamentare della prima ora ed erede della casata d’Austria-Ungheria scrisse in una sua opera non molto nota, Europa Imperiale, che ancora oggi, nonostante i drammi vissuti nel Novecento, ogni europeo è il prodotto di una cultura di massa per la quale la Storia rappresenta una dimensione intangibile del divenire.
Una dimensione il cui controllo non è esercitabile di fronte ad un’idea di progresso fondata sulla fiducia degli automatismi che ogni processo innovativo offre. Cosa significherebbe oggi questo? Semplicemente che non vi sono procedure scontate e fine a se stesse, sulle quali fare affidamento in maniera cieca e sorda escludendo la consapevolezza dell’agire, del modo di raggiungere una conoscenza dei risultati che si intendono perseguire. Ma non solo. Che la storia è la nostra guida e il nostro mantra che dovrebbe farci riflettere su come e in che misura ci muoviamo nell’esperienza del nostro quotidiano, nelle scelte di essere parte di un’idea o nel volerci autoescludere. In questo senso, se volessimo guardare con occhi europei, ma anche antieuropei in Calabria come nel resto del Sud, sembra che il confronto alle prossime tornate elettorali sia una nuova corsa alla diligenza dissimulando, con il contorno di giustificazioni di programma o di intenzioni, la vera volontà di conquistare rendite di posizione in nome o per conto del padrone politico di turno.
Una sorta di ricerca ad appropriarsi di un calesse senza amore o sentimento per un’idea di Europa che di fatto è, e rimane, molto al di sopra della nostra soglia di comprensione da anni. Per la sua portata ideale, per la sua potenziale possibilità di far crescere territori che dell’aiuto comunitario ne hanno solo sprecato le finalità, se non rinunciato a dare corso a fondi e progetti capaci di riallineare, se ben impiegati, spazi economici ed umani su livelli di crescita di altra qualità. L’assalto alla diligenza europea al Sud non sarà, quindi, il frutto di una consapevole idea di un’identità che unisce e che va al di sopra delle marginalità nelle quali viviamo, e forse anche bene per alcuni, a cui ci siamo autocondannati nel tempo.
Esso sarà una dimostrazione di una vanagloriosa ennesima ricerca di creare nuovi miti politici per politiche giocate all’ombra di una resa dei conti tra scelte nazionalpopolari pseudosovraniste e un europeismo fine a se stesso; ovvero utile a chi tenta di ritrovare una credibilità dispersasi nell’incapacità di governare un Paese quanto le sue regioni. In questa campagna elettorale che nulla ha di europeo, in Italia e meno che mai al Sud, sembra che l’Europa sia una sorta di campo neutro nel quale suddividersi ruoli, poltrone e istituzioni abbandonando ogni capacità di immaginare un futuro costruito sotto l’insegna di essere parte di comunità allargate perché accomunate da culture e storie condivise. Non esiste un’Italia senza Europa e senza il Mediterraneo.
E non esiste un Sud senza un Nord, e se la Calabria è un Sud dell’Europa essa è un Nord per il Mediterraneo. In questa relatività prospettica, si dovrebbero creare quelle ortogonalità politiche che dovrebbero ricostruire un quadro di cooperazione e di crescita. Per fare questo ci vorrebbe una nuova rivoluzione copernicana. Una rivoluzione che rimettesse al centro l’idea di una casa comune europea che se non svende le nazioni in nome di un globalismo senz’anima e storia non ne limiti le periferie condannandole ad essere ostaggio di un sovranismo miope se non reazionario. Ma, anche di fronte a buone intenzioni, l’idea di un Sud protagonista e non semplice notaio di quanto deciso altrove sembra essere la chimera cui affidarsi, quella bestia immaginaria che non esiste e di cui si narra la malvagità, per non assumersi responsabilità chiare.
Un Sud che senza una propria anima europea se non europeista, risponderà ai diktat di coloro che, europeisti senza anima, hanno dell’Europa una visione egoistica e limitata ad un proprio uso e consumo per opportunismo, che di coloro che si dichiarano, in nome di un sovranismo fuori tempo, antieuropeisti. Il gioco elettorale assume sin da ora le vesti di una campagna grottesca, dove ognuno tenta di dimostrare di essere all’altezza per competenze o, sarebbe già qualcosa, per conoscenze. Probabilmente dovremmo crescere come europei, come italiani sicuramente, e come calabresi. Ma la strada intrapresa decenni fa nell’uno o nell’altro caso, seppur con difficoltà, sembra sia stata svenduta al mercato del solito comodo provincialismo che, nell’azzerare ogni curiosità di conoscenza, rimette in gioco la corsa politica quale corsa per il potere fine a se stesso. O, forse meglio, fine a se stessi.