Due settimane all’ennesimo rendez-vous elettorale. Due settimane circa ci separano dall’esercitare un diritto che non si consumerà solo nella fredda laconicità di un’urna. Si snocciolerà man mano nella conta di quelli che saranno i voti e i non voti. Si definirà da se quale epilogo di una contesa che pretende di assumere, in un solo respiro, ciò che sa di nazione e ciò che dovrebbe emanare una sorta di essenza europea.
Un’essenza, quest’ultima, che stenta ad estendersi ancora oggi negli animi di ogni cittadino italiano, che non si completa in una consapevole coscienza di appartenenza né ad uno Stato e, meno che mai, ad un’idea di superstato o di sovranazione. I risultati delle prossime elezioni europee, al di là di ciò che sarà il voto per il rinnovo del Consiglio regionale prossimo venturo, è già di per sé un buon motivo per giungere ad una riflessione preliminarmente certa: non dimostreremo di avere un’identità. Credere in una nazione, sentirsi parte di essa, condividere perché protagonisti dei suoi destini significa avere una coscienza prim’ancora che nazionale, di popolo. Significa avere, e riconoscere come tale, un patrimonio di culture e di tradizioni che nel distinguere ci permettono anche di confrontarci con le diversità. Ma non sarà così.
La corsa al voto non sembra essere ancorata ad un’idea di valore, ma ad un disegno di opportunità o di resa dei conti. Se per ciò che è distante da noi il gioco è sulla tenuta di un governo atipico nei colori e nelle persone, nelle piccole periferie del Sud e della Calabria si giocherà l’ennesima corsa a confermare o sostituire leadership politiche che più che di un partito, hanno le sembianze di persone fisiche. Retaggio poco inconsapevole di investiture formulate senza guardare ai contenuti o alle idee, ma alle prossimità di opportunità imbarazzanti che arricchiscono da giorni le cronache al Nord come al Sud. Non vi saranno cambiamenti su alcun fronte.
Europeisti o meno per il Sud, e per la Calabria in particolare, l’Europa resterà lontana. Un qualcosa cui non sentiamo di appartenere per chi ha difficoltà a guardare solo all’Italia come casa comune. Vorremmo superare un giorno questo paradigma di vassallaggio senza anima, affrancandoci magari dal padrone più prossimo, ma ciò richiede coraggio e umiltà. Coraggio di non riconoscere autorità ed autorevolezza a ciò che rimane delle vecchie schiere. Umiltà nel non credere che la novità sia solo il prodotto di una sostituzione di nomi o figure, e non di idee. Ma ciò richiede cuore e volontà di guardare ad un altro futuro. Un futuro di confronto e di partecipazione attiva che sveli, esiliandole, vanità inutili il cui prezzo dell’individualismo è l’immobilità fine a se stessa. La rinuncia ad una crescita comune, il non senso di comunità che ci avvolge e che ci fa sentire stranieri in Italia come in Europa.
Superare il limite del privato - ovvero deprivatizzare il sentimento di appartenenza ad un’idea di nazione e di sovranazione più grande - significa ritagliarsi un’opportunità di protagonismo condiviso piuttosto che accontentarsi di una periferizzazione delle nostre individualità che sarà sempre e solo sinonimo di marginalità. Significa non perdere terreno, visto che la distanza che ci separa dall’Italia e dall’Europa aggiunge ogni giorno un chilometro di rassegnazione che favorisce un nuovo Messia di turno a cui guardare e celebrare sull’altare del successo di una politica che rimarrà, ancora una volta, al Sud come nel Paese, di piccolo profilo.