Vi sono diversi neologismi che arricchiscono la lingua italiana. Ovvero, vi sono molte parole introdotte da pari assunti provenienti da altre lingue che italianizzate tendono ad assumere dei significati attraverso i quali indicare, in termini semplificati, concetti o contenuti. Uno di questi è non-luogo.
Ora, senza andare a discutere sull’origine transalpina del termine, e lasciando da parte la sua formulazione avvenuta all’interno di un’analisi socio-antropologica, di certo esso assume non pochi significati nel descrivere modelli fluidi di organizzazione sociale dotati di scarsa identitarizzazione. Ora, tre giorni fa ero a Genova ad un convegno interessante sulla Belt and Road Initiative, o se volete, più facilmente, sulla nuova via della seta. Si, quel progetto, meglio quel brand cinese voluto da Xi Jinping a cui affidare un ruolo geopolitico per una Cina pronta a diventare leader dell’economia mondiale conquistando l’Europa. Tralascio le valutazioni geopolitiche e le implicazioni, e le riserve ovviamente, che sono di per sé abbastanza complesse.
Mi fermo solo a qualche riflessione dimensionandola ai nostri piccoli orizzonti calabresi. Ebbene, ho visto presentazioni sullo stato dell’arte di lavori e di infrastrutture che dovrebbero, nella loro ambizione di esserne funzionali, far si che l’Italia, o parte di essa, possa essere protagonista del grande progetto geoeconomico. Ho ascoltato interessanti relazioni su come e in che termini le attività portuali dovrebbero rispondere alle esigenze di sostenere - in un quadro di interdipendenza intermodale - la creazione di una rete di connessione di attività economiche che aggancino gli spazi di produzione agli spazi di mercato, mettendo in campo le migliori soluzioni trasportistiche e gestionali per abbattere i tempi di trasporto e di lavorazione delle merci tra l’Oriente e l’Occidente, tra il Nord e il Sud. E ho visto dove siamo arrivati ad oggi.
Al di là delle opinioni su quanto, come e perché ciò possa convenire all’Italia, e su quanto come e se ciò possa essere veramente e concretamente un volano per rilanciare l’Europa, mi fermo ad un’osservazione. Si è parlato di tutto. Di porti, ferrovie, alte velocità e alte capacità, di valichi e di connessioni digitali. Si è parlato di Mediterraneo, di quanto Genova e Trieste siano i porti a “Sud” capaci di superare il limite dei cinque giorni in meno di navigazione per raggiungere il Nord Europa per il transhipment proveniente da Suez. Nessuna parola, neanche una citazione sul porto di Gioia Tauro. Nessuna indicazione che potesse far presumere l’esistenza di una minima intenzione di realizzare una sinergia qualunque che rimettesse in gioco il suo, presunto, ruolo mediterraneo.
Si perché, mi è parso di capire, che per gli autorevoli relatori il Mediterraneo inizierebbe a Genova o a Trieste per il Nord Europa e al Pireo e Salonicco per i Balcani e l’Est caucasico. Devo dire che ero abbastanza tentato di intervenire per affermare un mio pensiero, peraltro inutilmente rilanciata più volte su questo giornale o in tempi passati su un quotidiano regionale calabrese. Ma alle argomentazioni poste sul tavolo e per le quali uno dei relatori ha definito “aria fritta” ogni altra idea di ritenere possibile economicamente, oltre che infrastrutturalmente vantaggioso, inserire altre realtà portuali, ogni possibilità di replica mi è stata disarmata dal doverla poi dimostrare con dei fatti a supporto.
Probabilmente nella nostra miope visione di eccellenze che ci autointerpretiamo, e sulle quali ci autoconvinciamo da sempre di essere alla pari o quasi, non abbiamo capito di aver contribuito a creare, senza concretezza nelle scelte politiche ed economiche infrastrutturali, un non luogo geografico. Uno spazio economico e sociale che, seppur privo di una sua indentità, non viene riconosciuto e, pertanto, non sostenuto in alcun progetto di rilancio che faccia parte di un quadro complessivo di sviluppo che leghi il Sud, quello che noi riteniamo tale, al Nord. Credo che nessuno si sia chiesto perché Genova sia “The Southern Gateway to Europe”. Forse perché ha una sua identità o, se l’avesse mai dimenticata, l’ha ricostruita partendo da una capacità di impresa e di politica portuale innovativa, lungimirante, ri-ancorandola ad una tradizione che non ha mai archiviato. Stesso dicasi per Trieste.
E, allora, forse dovremmo guardarci allo specchio e, magari ripesare, evitando di cadere nella trappola dei facili entusiasmi, le parole o le facili promesse, se non la capacità, di chi celebra eccellenze e vocazioni mediterranee di questo Sud non-luogo in negativo. D’altra parte è vero, forse un non-luogo potrebbe anche essere fonte di opportuntià se le ragioni economiche lo disancorassero dalle sue identità potenziali. Tuttavia, la competizione si gioca ancora, per chi deve crescere, su piani di identità e se, come afferma Marc Augé, un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo, Gioia Tauro è questo e con essa, una regione che naviga, senza traguardi, sempre più aride rotte.