"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Se non riusciamo ad andare oltre

Se non riusciamo ad andare oltreOgnuno di noi in questi giorni avrà seguito diverse notizie di cronaca. Alcune marcatamente sottolineate da una stampa ritenuta più accreditata e meglio informata, altre affidate al piccolo giornalismo quotidiano. Non solo. Probabilmente avremmo letto, ascoltato o sentito dire di avventure giudiziarie di vario tenore, tra ricerche di posizioni di ruolo e insegnamenti cattedratici caratterizzati da ubiquità singolari. Oppure, avremmo letto anche di alcune eccellenze universitarie i cui algoritmi, quali procedimenti sistematici di calcolo, probabilmente sono stati applicati non solo a diagnosticare il rischio di soffrire di disturbi di una certa malattia, ma anche ad altro.
Eppure, al di là del clamore che suscitano solo le indagini contro la criminalità, credo che in fondo certi avvenimenti assumano un carattere ancora più interessante per modalità, luoghi e personaggi anche se sacrificati in nome di un timido pudore reverenziale. Che si tratti delle avventure universitarie nel gioco delle cattedre o delle presenze presunte o meno di docenti prestati alle lezioni da parte di altre istituzioni - che avrebbero funzioni che vanno ben oltre una lezione, se tenuta - probabilmente vi è un senso della legalità diversamente inteso o percepito nelle nostre comunità e, in fondo, anche tra coloro che se ne assumono il compito di affermarla se non di professarla. E’ vero!
Sembra quasi noioso tornare su un argomento diventato una sorta di tormentone quotidiano. Ma la sua riproposizione in ogni dove, e in ogni pagina o evento, sembra assumere quasi le forme di uno psicodramma all’interno del quale vi è una sorta di consapevolezza non dichiarata di essere ostaggio di un rito necessario di purificazione legalitaria. Un rito così necessario al punto da doverlo celebrare in ogni momento della nostra vita soprattutto politica, meglio ancora se di fronte ad una manifestazione di potere. Siamo costretti, insomma, a ricordarne il valore senza credere che ogni giorno esso si svuota di significato anche grazie anche a coloro che se ne cuciono una su misura. Un vuoto ideale e di coscienza, crimine a parte, all’interno del quale si superano le regole ritenendo che il proprio ruolo permetta di andare oltre. Pensando che si possa dividere il campo del lecito tra il crimine ortodosso, comune od organizzato, e comportamenti lecitamente dovuti, ma che sono deviati dal fascino o dalla vanità di potere.
Le vicende delle cattedre, le lezioni condotte grazie forse ad un ologramma che sembra garantire un’ubiquità non definita in termini di presenza reale, le intemperanze di una magistratura che ricerca se stessa ma si àncora alle dinamiche del potere, quasi come se fosse nemesi della politica, non rendono un buon servizio al Sud e alla nostra terra. Se la criminalità è di fatto una patologia di cui si ricercano le cure, ma senza poi accollarci le spese, quanto accade nel mondo della legalità non sembra essere di buon auspicio e di garanzia. Se per alcuni la criminalità tende ad inquinare la vita politico-amministrativa condizionandone i processi, altrettanti inquinamenti avvengono nel mondo cosiddetto legale dal momento che il solo esercitare funzioni o assumere incarichi non è garanzia che se ne sposino i valori. In questa tragedia molto calabrese fra patologie note e paladini della giustizia sociale oltre che giuridica, sembra combattersi una guerra tra comparse senza autori.
Ognuna di queste rivolte a ritagliarsi un ruolo da protagonista; ognuna impegnata nella strenua difesa di una reputazione o di un rango sociale o di un potere politico. Il risultato, alla fine, è che alla criminalità senza centro e senza colore politico alla ricerca solo dei suoi profitti, la fragilità dei valori professati - ma non dimostrati da chi deve formare o combattere in nome di un senso comune del lecito – tutto questo diventa una dimostrazione di debolezza di un modello di società civile nel quale si legalizza ciò che legale non è. Una fragilità che condanna ognuno di noi alla marginalità. Una condizione di costante, imperitura sudditanza nella quale non sono più le gerbere gialle a dare colore ad una grigia storia di personalismi e di presunzioni di immunità in nome di una autorappresentazione della legalità. E’ quel miraggio violato come un sogno d’estate distrutto da un incubo che ci impedisce di essere una comunità, legale, matura, concreta e costruttiva senza poteri indefiniti e, soprattutto, senza i potenti di turno.

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