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Alexander Dubcek

Tra scrittori, rime e normale indecorosità

Tra scrittori, rime e normale indecorositàOgni estate, come sempre e immancabilmente, si susseguono diverse kermesse favorite dalla possibilità di vedere le piazze gremite o dall’aspettativa di poter dare lustro a chi della cultura si pone quale ambasciatore, promotore se non produttore tra rime dialettali, costrutti romanzati a cui seguono gli immancabili premi.
Certo, non si tratta di una novità. Probabilmente l’adagio sul quale culliamo le nostre non confessabili frustrazioni di una società ferma e poco produtitiva che la cultura sia volano di crescita alla fine sembra essere uno dei tanti paradigmi con il quale interpretare il nostro piccolo mondo. Un mondo di cui celebriamo le singolari tradizioni afffidandoci ad un vernacolare in salsa accademica  o dal quale estraiamo, fosse quasi un cilindro con la sua tesa circolare, il ricordo del poeta o dello scrittore al quale affidare il riscatto delle nostre anime e, meno ovviamente, delle nostre opere.
Già, perché se la cultura è crescita non si comprende come mai, girando l’angolo delle piazze alla fine non si vede in quali e in che termini una cultura, quella del territorio, sia sempre così lontana. E non solo dall’essere oggetto trascurato dalle opere omnie o meno omnie di poeti e scrittori multistagione, ma non sembra essere essa stessa maturata all’ombra dei versi delle grandi coscienze civili degli imperituri scrittori a cui non risparmiamo lodi. Protagonisti cui si intitolano premi, se ne decantano le doti di vati senza proseliti se non con apparenti seguaci.
Se la cultura fosse crescita, di certo dovremmo avere quale contraltare di tale virtuoso e sublime compito. Dovremmo disporre di una sensibilità verso il mondo che ci circonda considerandolo il palcoscenico delle nostre vite nel quale si susseguono non solo le recite delle parti, ma si sovrappongono man mano le coreografie che rendono quanto viviamo e respiriamo un posto unico. Uno spazio di rispetto e di decoro nel quale alle nobili parole poetiche in vernacolo o in italiano cadenzato, non si accompagnano scene di indecoroso abbandono dei nostril luoghi.
Premi e ricordi, personalità romanzate o romanzieri del momento o della storia di cui ad ampie mani raccontiamo prima a noi stessi e poi agli altri, dovrebbero favorire una crescita del mondo comune e del quotidiano dove la prima arte dovrebbe essere quella di superare la sciatteria della trascuratezza quanto dell’effimero che nella grossolanità spesso mortifica quei particolari sui quali ben altre culture e scrittori hanno costruito il loro successo e quello delle società che li hanno prodotti, sostenuti e celebrati.
Certo, comprendo che nell’epoca del web e della rapidità di raggiungere ogni potenziale lettore o orecchio attento la facilità di raccontare o di mettere in rima frasi trasformi in tanti, molti e forse troppi, in inconsapevoli distrattori di anime e di sentimenti, Ma pensare che un premio, una popolazione di poeti estivi - o il ricordo di scrittori con l’alloro sempreverde pronto a germogliare ogni piè sospinto se l’occasione lo richiede per darci un tono che abbiamo perso - possa farci distinguere dall’oblio della marginalità culturale è una vera illusione.
La cultura è ricchezza laddove il territorio, lo spazio umanizzato rappresenta quella parte concreta dell’agire umano, modificato da un animo e da una volontà che ne piega le asperità raccordando il suo sentire al piacere del bello, del pulito, dell’ordinato, del profumato o del disordine affidato, questo, alle intemperanze della natura e non prodotto dell’incuria dell’uomo. E’ questa la differenza tra un Fogazzaro, un Guareschi o di un Pascoli rispetto a  chi crede di poter far parte di una comunità letteraria nella quale, con buona pace di chi punterà i piedi,  respireremo la solita marginalità che di poetico, seppur nelle sue pieghe di un cantico sociale, ha veramente ben poco.

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