C’è chi grida allo scandalo, chi si preoccupa di difendere il malcapitato prescelto, per dovere di carica o per dovere di immagine, per essere stato sacrificato alle ragioni mediatiche di una trasmissione televisiva, in fondo, ormai stucchevolmente come tante. Ma, grida poco circensi o l’annuire per stanchezza, sono fattori che non mutano il rapporto di forza e di debolezza nel quale le parti si sono lasciate andare.
La puntata nella quale si sono celebrati i forbiti anatemi di un anchorman con nuova patria, dopo la Rai, e le difese arroccate di chi ha cercato di parare colpi senza corazze supplementari, sono sembrate degne del nome del programma: Non è l’Arena. Infatti, non si è trattata di un’Arena poiché lo spostamento verso il predominio di una delle parti, seppur prevedibile e fisiologico, ha dimostrato come e in che termini la dialettica si arrende al primo sobbalzo di censori che tendono a mortificare il contraddittorio.
Non è un’Arena nella quale i contendenti scelgono le armi alla pari e si pongono l’uno contro l’altro alla stessa distanza, o potendo contare sugli stessi strumenti di lotta. Siamo di fronte ad un talk show unilaterale nel quale si è celebrato il rito del solito dileggio elegante, almeno sino alle prime urla, di una regione che assorbe ogni argomento che la pone al centro di un dibattito dissacratore; a volte di sostanza, spesso di circostanza e se non di opportunità in altre. Si, perché non sono le vicende catanzaresi saltate agli onori di una cronaca ripetuta che fanno la differenza.
Le avventure/disavventure di un comune come tanti non sono eccezioni per una serata tra amici al bar, anche se il presentatore che veste gli abiti del giustiziere/sacerdote ne organizza il tenzone. Esse contribuiscono solo a mantenere in vita quel fenomeno di intrattenimento che porta un’Arena dentro le case e con essa tutte le parti in gioco. Non è un Colosseo nel quale si richiedono particolari abilità da combattente provato. E’ solo un circo nel quale si gioca al massacro mediatico, evitando che anche un solo defatigante approccio ironico, magari inteso a sdrammatizzare e salvare quanto, seppur poco, si possa provare a fare, possa avere quartiere. Certo, non ci aspettiamo che in questi tempi di inquisizione dilagante megafonata dalle tv italiane, sempre più ricche perché giocattoli per magnati, esca fuori un David Letterman.
Non siamo capaci di sdrammatizzare, ma drammatizziamo utilitaristicamente ogni cosa che, approfittando della sua drammaticità, ne spostiamo ancora il livello al dramma supremo del tutti contro tutti, o contro qualcuno che non ci piace. Insomma, non credo che tocchi a chi scrive queste poche righe esprimere un’opinione sullo scontro televisivo andato in onda giorni fa e che imperversa, tra detrattori e accusatori, o difensivisti, su ogni dove del magmatico e indistinto spazio pseudosocial. Non si tratta di dividersi poco elegantemente su chi ha vinto o chi ha perso.
In una lotta senza esclusioni di colpi e di offese, credo che alla fine la vera sconfitta rimanga la Calabria. Incapace di sostenere gli attacchi, di restituire con argomenti validi la stessa educata acredine di cui è destinataria da tempo, di affermare quel poco di dignità che supera il luogo comune, o di essere pronta a sottolineare le cadute di stile di chi dello stile, ammesso che lo abbia mai avuto, ne ha fatto una ragione di carriera giornalistica, seppur non sulla carta stampata. D’altra parte, la Calabria non è un’ (l’)Arena per tutti, forse neanche per noi stessi. Il confronto a volte è duro e forse anche pericoloso nel dover pagare un prezzo, soprattutto nell’impari lotta condotta sul filo dell’audience e del pregiudizio cui si affidano le prime serate di molti palinsesti. Bisogna essere capaci, eroici se volete, nel rispondere con dignità ad ogni provocazione, ma ci vogliono argomenti, risultati. Purtroppo di questi argomenti e dei risultati se ne sono visti ben pochi.