C’è una parabola, quella del padrone della vigna, nel Vangelo di Matteo (20,1-16) per il quale vi è una speranza affidata ad un’esclamazione di circostanza che sembra sottendere una certezza metafisica, se non meta-teologica, per la quale gli ultimi (beati) saranno i primi nel mondo che sarà.
Una parabola che attribuisce una sorta di speranza esistenziale o, forse, si propone come una consolazione terrena ad una condizione vissuta, dalla quale sembra sia inestricabile ogni ipotesi di riscatto. C’è anche un film con lo stesso titolo uscito pochi anni fa (2015), nei quali la vita diventa un sovrapporsi di drammi e di sentimenti, dove chi prevale sembra incerto sul come e in che modo adeguarsi ad un ruolo comune di una protagonista che cerca quella giusta compensazione tra lavoro e maternità non voluta, tra il rispetto e la considerazione.
Ci sono poi i miti contemporanei, gli ultimi del nuovo secolo, nei quali si consuma un cliché sul quale si realizzano costrutti a volte giustificati e, qualche volta, un po’ meno. Ora, al di là di ogni commento su scelte che rispondono a precise responsabilità personali e politiche per chi è deputato a farle - e ne ha pieno diritto in virtù del mandato elettorale ricevuto - cerchiamo di contestualizzare i termini in una regione come la Calabria. Una terra ormai, con dispiacere di chi scrive e noto con meno animo in chi vi vive, considerata la più povera d’Italia.
Rendersi conto di essere ultimi rappresenta una consapevolezza che di per sé può essere considerata già un passo avanti, quanto meno per onestà di conoscenza del punto di partenza. Tuttavia, rimarcarne la marginalità di una cultura, di persone che sembrano non essere in grado di amministrare se stesse, di una società civile assente per scelta o forse per timore, non credo che favorisca alcun ultimo della nostra storia o di altre storie oggi traghettate al Sud. L'idea che il mito possa distrarci da una realtà vissuta ogni giorno - con promesse o soluzioni fondate se non accreditate sul fronte del personaggio mediatico - non credo possano offrire se non qualche altra prima pagina, o catturare la già non poca attenzione sulla Calabria dei media del pensiero ormai troppo unico.
In una terra che non vive alcuna normalità, dove tutto è eccezionale nel suo svolgersi, il mito si pone, e propone a salvaguardia di se stesso, confidando che laddove tutto è incerto ogni idea di eccellenza fa sognare ciò che non è, e che non sarà. In una regione nella quale altri miti si sono cimentati e senza successi di particolare pregio, credo che il vero mito sia la conquista della normalità. Una visione chiara, sincera e intellettualmente onesta che collochi i miti contemporanei, che godono dell’amplificazione mediatica a cui ricorrono per consolidare la propria credibilità, nell’unica giusta e coerente dimensione: quella di essere o di aver rappresentato un fatto idealizzato oltre la misura del dovuto. O, anche, di essere del fatto certamente un’espressione paradigmatica per concreto riconoscimento o per costrutto ma, in certi casi, andando oltre coloro che del mito non se ne sono avvalsi e che attendevano, quanto meno, di vedersi prima o poi riconosciuto il merito quali eroi minori sacrificati alle ragioni del mito.
Ma, al di là di tutto, essere ultimo tra gli ultimi non è certo un gioco difficile, complesso partendo dal basso; tutto dipenderà dalla carica del mito. Cioè, dal mantenimento di quella partecipazione a sostenerne le capacità di cambiamento valutando giorno per giorno con quanta abilità si continueranno a polarizzare gli animi, elevandosi - il mito - a simbolo privilegiato, se non trascendente, in una terra lasciata alla conquista di nuovi sacerdoti che di trascendenza non dovrebbe aver bisogno.
Una regione, dove non tutto è crimine, ma ormai tutto è crimine. Dove il confronto dovrebbe avvenire a viso aperto, come molti e tanti eroi del nostro passato e del nostro presente hanno fatto, consapevoli o inconsapevoli questi ultimi, che ogni maschera finirà per rivelare l’identità celata e alla quale il mito non resisterà. Dove il destino dovrà essere frutto della conquista della fiducia in noi stessi senza affidarlo a tentazioni da palcoscenico di cui ormai in tanti, e troppo, ci siamo tristemente abituati. Perché alla fine, parafrasando Zygmunt Bauman, non è possibile crescere sulla paura, sul dubbio che tutto sia illecito. Oppure, giustificando colui che non essendo in grado di assicurare crescita o sicurezza, si preoccupa di abbassare la battaglia contro la paura, e la marginalità, verso la sfera della politica della vita, appaltando alle battaglie mediatiche o all’uso di un mito gli strumenti per abbatterle.