Bene siamo giunti in prossimità dell’epilogo. A passi incerti, poco sostenuti da fermezze dettate da conoscenza e in preda al parossismo più diffuso, che non ricorda tali isterie neanche ai tempi della peste manzoniana, del vaiolo o della spagnola - che dal 1917 e sino agli anni Trenta inoltrati ha provato a essere parte della vita di ogni nostro parente ormai lontano - siamo giunti alla domanda fatale per chi ha il potere: chi si assumerà la responsabilità dell’exit-strategy?
Una responsabilità che la politica non ha il coraggio di assumersi, come in tanti altri casi, cercando nella via tecnocratica il sereno, dopo aver offerto nelle sue inadempienze prima al virus e poi ai suoi cultori dello scientismo mai così supponenti, quella tempesta perfetta dove tutte le rendite apparenti di sanità futuristiche, di trapianti avveniristici o di eccellenze promosse in ogni dove e da ogni regione, sono franate. Ma non solo. In questo gioco a frammentare le responsabilità future, ricorrendo ad eserciti di esperti che intendono agire solo a condizioni di immunità garantita - non dal virus, ma dagli eventuali danni derivanti dalle loro scelte sulle nostre vite - si consuma il paradosso delle regioni, entità territoriali che si svegliano dal sonno tardivo nel ricercare una dimensione o, forse, di sentirsi chiamate a rispondere senza intermediari, perché pare che non ve ne siano, di scelte da prendere nei prossimi giorni e mesi.
Nel correre ai ripari mancati da tempo, ma anche nei due mesi a disposizione e sino ad oggi per chi non ha avuto numeri tali da doversi sbracciare per emergenze varie, oggi sull’apertura delle nostre porte di casa, delle attività economiche, delle scuole, vige il mantra del si/no/forse/meglio di no, come se ci riferissimo a delle stalle ormai sature e con cavalli che spingono con gli zoccoli. Osserviamo, soprattutto al Sud, il susseguirsi di mortificanti posizioni che si giocano sul piatto della salute del cittadino come se di salute ci fosse solo quella fisica da Covid e non psicologica, affettiva ed emotiva oltre, e non di secondo piano, economica. Una regione non è una stalla o un recinto impermeabilizzabile, quanto chiuderne la porta non è un potere esercitabile neanche su delega, dal momento che nessuna legge dello Stato prevede tale possibilità, esecutivo compreso, se non all’interno di una precisa procedura parlamentare dettata da previsioni costituzionali.
Ma al di là della chiusura, già data come prorogata di fatto per alcuni Presidenti di Giunta - il termine governatore come quello di onorevole l’ho cercato per le cariche calabresi, ma la Costituzione non ne parla - io credo che alla fine l’autogol si presenterà come il dazio da pagare al tornello della verità futura, che si chiuderà in barba ad ogni ottimistica politica di crescita della Calabria, come letto anche su un giornale della locride giorni fa. Nessuno mette in discussione la necessità di tutelare la salute pubblica. Ma se così fosse, forse la più alta carica della regione dovrebbe spiegare, come ho letto in questi giorni, perché ad oggi, a più mesi dall’emergenza e dopo aver dovuto far tesoro dell’esperienza di altre regioni, si parcheggino presunti, presunti, pazienti con possibili sintomatologie da Covid-19 in reparti di emergenza in attesa dell’esito di un tampone che arriverebbe dopo giorni e dal capoluogo di provincia.
Dopo aver avuto mesi per organizzare una prevenzione e una diagnostica minima territoriale, a domicilio, nella locride il problema sembra siano ancora oggi i tempi dei risultati di un tampone, il dover ricorrere ad un laboratorio esterno alle attività ospedaliere in un momento di ritenuta emergenza, di dover far processare l’esame a più di novanta chilometri di distanza. Io credo che non ci siano commenti di fronte a tanto. Sommando la frustrazione ad altri sentimenti di disappunto personale che quale cittadino mi è dovuto per libertà riconosciuta, da calabrese direi che la comunicazione è stata questa volta fatale. In un mondo che si riprende perché la vita deve continuare, penso alle immagini dei bambini nei parchi di Monaco, abbiamo perso mesi utili non solo per mettere in sicurezza una regione, come un Paese d’altronde, ma per dare fiducia a chi vorrà un giorno sceglierla come meta turistica (ah! Il turismo decantato ma mai voluto).
Abbiamo comunicato al mondo, in termini pubblicamente ufficiali, il disastro della sanità calabrese, la nostra mancanza di fiducia per la quale abbiamo scelto di sacrificare dal ritorno prossimo affetti ed amori e abbiamo, alla fine, realizzato il peggior paradosso che un’aberrante comunicazione poteva creare e che ha del grottesco. E cioè, che al resto d’Italia non importa nulla se la Calabra chiuderà sino a fine maggio o anche dopo. E che in Calabria, a condizioni date di tutela della salute così come rappresentate, non vorrà scendere nessuno perché, Covid o non Covid, anche un turista che, erroneamente sceglierebbe la nostra terra oggi, sa che non potrebbe contare, in caso d’urgenza, di un’assistenza adeguata nel suo piccolo estivo quotidiano. E, questo, perché, parafrasando un pensiero di un’esperta in analisi dei comportamenti psicosociali, la chiusura mentale come rifugio dalla paura di non essere all’altezza è ancora più pericolosa di ogni malattia, della Sars, della Mers o del Covid-Sars. Perché contagia l’animo delle persone, aumenta le distanze e si risolve nell’isolamento dell’altro, nella poca credibilità e nell’incapacità di trovare motivi di fiducia per dare luce a delle menti ormai sprofondate nelle tenebre che occultano ciò che non si vuole vedere.
Si giunge, così, rapidamente, al fallimento non solo comunicativo, ma culturale e propositivo di chi nasconde le proprie paure, le proprie inadeguatezze nel produrre proclami di autochiusure fisiche di comunità che proprio dalle chiusure altrui hanno ricevuto danni, alcuni irreparabili, alle loro vite e da tempo.