In genere, presi da una sorta di compiacenza personale, magari giustificata da un ottimismo del momento, cerchiamo sempre di poterci distinguere. A volte con delle nostre abilità o virtù, a volte con episodi che ci contraddistinguono. Cioè, per dirla con una battuta da osteria eclettica e saccente… cerchiamo di non farci mancare nulla.
Già, è vero! Sembra proprio che in questi primi mesi dell’anno noi, al Sud, e in Calabria, non ci siamo fatti mancare nulla. Al di là delle polemiche sulla vita della politica regionale, che percorre ormai strade parallele da anni - salvo incrociarsi rare volte con quelle di cittadini sempre ben attenti a non deludere colui che potrà tirarci in salvo - sembra che non riusciamo ad andare oltre l’essere terra di illecito e di incompiuta maturità civile. L’idea di fondo, oggi, è che continua ancora a crescere un indistinto e trasversale ruolo di avventurieri divisi tra coloro che tentano di sostituirsi ad una classe politica giunta al capolinea della storia e coloro che in nome di un’onestà di facciata hanno solo tentato, e ci sono riusciti, di raggiungere quella torta delle cui fette non hanno mai assaporato né il gusto o saggiatone la consistenza.
A tali sacerdoti dell’ipocrisia della corsa al più onesto, segue poi il partito diffuso dei qualunquisti. Cioè di coloro che sono i rassegnati al malessere dello Stato e delle istituzioni. Rassegnati di maniera, poiché tali sono sino a quando l’azione politica dei governi non incide sul loro mondo privato, pronti a cambiare passo e termini pur di partecipare alla spartizione del potere o ad esserne destinatari dei benefici. In ultimo, sembra esservi lo Stato che ci ricorda che esiste allorquando il quadro si completa nel vulnus della lotta alla criminalità che sembra, quest’ultima, non avere e non darci quartiere conquistando non solo piazze nel dovunque possibile, ma anche ancorando capacità di contaminazione in ogni altrove come nel Trentino degli ultimi giorni.
E così, sempre nel non farci mancare nulla, la Calabria ha conquistato, anche nel più estremo Nord della penisola, le prime pagine dei giornali mentre, al Sud, continua quel rincorrersi tra legalità e crimine che si risolve nella indistinta palude delle contaminazioni, delle compiacenze vere o presunte e nei giudizi sociologici a premessa di ogni configurazione della fattispecie in sé. Che la legalità sia un’emergenza sembra così ovvio al punto tale che l’abbraccio dell’abitudine ha ormai superato ogni timore di contagio anche nell’era di quel virus anaffettivo che richiede distanze nelle forme, ma che non riesce a essere così convincente dall’abbatterne le manifestazioni viste le contiguità che si evidenziano tra il fare e il pre-giudicare. E poco importa, soprattutto a chi può contare su redditi assistiti e/o garantiti, se il lavoro cesserà e l’attrattività della regione si ridurrà al quasi nulla.
Così come, poco importerà se l’impegno pubblico e sociale innalzandosi, ormai, la soglia di rischio al configurare contaminazioni possibili, alimenterà una rassegnazione ancor più diffusa, per quanto censurabile, che nel chi me lo fa fare troverà la parola d’ordine rinunciataria. Una parola d’ordine che ripropone uno stile di vita sul quale e per il quale si infrangeranno anche le più minime buone intenzioni di qualche coraggioso, se non velleitario, investitore/imprenditore o volenteroso promotore di un senso civile di impegno in una terra nella quale il civismo non si comprende più dove e in che misura esso si manifesti. Probabilmente non ci resterà che ascoltare Rino e il suo Ad esempio a me piace il Sud, ma consapevoli che ascoltiamo di un Sud malinconico, votato a essere rassegnato per sopravvivere, a questo punto, e accontentandoci di Camminare con quel contadino / che forse fa la mia stessa strada/parlare dell’uva del vino/ che ancora è un lusso per lui che lo fa.