Questa settimana non scrivo da Calabrese per caso. Mi pongo nelle vesti di un italiano casualmente vissuto ai tempi del Covid-19 (orgoglio quasi manzoniano da sopravvissuto) e del passato referendum che salverà il Paese dal disastro economico, risparmiando sui parlamentari.
Credo che in tanti, molti anni fa, ci siamo prima o poi imbattuti con i fantastici viaggi di Gulliver. Ovvero, in quel racconto, posto a metà strada tra l’onirica visione di un mondo impossibile e la realistica satira di quanto le proporzioni, non solo fisiche, ma anche intellettuali non siamo rispondenti a regole dimensionabili, se non misurabili, con il metro di ognuno di noi. Lungi dal voler scendere a baloccate intellettualoidi, di certo vi è che se l’autore dei fantastici viaggi fosse ancora tra di noi e se si recasse oggi in Italia, o si avventurasse in un meno epico viaggio verso il Mezzogiorno, avrebbe molto da scrivere, forse con più sagacia e forbita satira dei grandi viaggiatori suoi conterranei.
Che il reverendo Jonathan Swift non fosse un tipo semplice era già chiaro ai suoi contemporanei, così come era altrettanto chiara la mistificazione della realtà, ma anche dei valori, che la politica del potere fine a se stesso mercificava al mercato delle possibili opzioni per riuscire a rendere credibile l’inganno. Non dovremmo andare molto lontano, insomma, per comprendere che Swift aveva idee ben precise sull’arte della menzogna in politica e se, da buoni meridionali quali noi siamo, aggiungessimo quel retaggio che sopravvive al levantinismo che fa della dissimulazione un’arte probabilmente saremmo protagonisti inconsapevoli del nostro tempo. Ma non solo.
Saremmo anche buoni osservatori, se fossimo attenti e non affascinati dagli slogan, di coloro che, secondo cultura, inseguono non solo il potere parlando alle pance sempre più attente ma, una volta raggiunto, lo consolidano senza scrupolo alcuno. Insomma, referendum a parte e a parte ogni commento sulla grandezza dei valori difesi o dimenticati per voluta distrazione, direi che ogni proposito di cambiamento ragionevole e razionale sia stato sacrificato nel nome artefatto dell’efficientismo, del risparmio se non della meritocrazia senza badare alle spese di …principio.
Certo, non è che la classe politica si sia difesa o si possa difendere con dovuta perizia di capacità, né a Roma né altrove, men che mai al Sud. Tuttavia, tra politici da Camere e nuovi sceriffi/governatori, autonominatisi tali a scavalco di ogni definizione e ragione costituzionale, di fatto si può sostenere, parafrasando Paul Ginsborg, che la democrazia non c’è più. Merce rara, in un sistema politico reso non solo mutevole, ma liquido e, quindi, drammaticamente vulnerabile. Connettere rappresentanza e partecipazione come economia e politica o, ancor meglio, famiglia (esiste?, e di che tipo?) e istituzioni come suggeriva Ginsborg in un saggio del 2006 non è certo facile ormai e forse da dimenticare.
L’inganno populista e il miraggio sovranista - entrambi complici della deriva sia internazionalista, ammesso che ne sia compreso il significato, che dell’identità, se esiste ancora e se essa ha un senso – hanno completato un quadro disarmante della democrazia non solo per la loro compiacente prossimità referendaria, ma per aver autorizzato, così, la fine di ogni rappresentatività. Scriveva Adriano Olivetti, di certo non un uomo di destra storica, non chiedete nulla, ma unicamente che la libertà che lo Stato e i partiti riconoscono a parole – quella di scegliervi i vostri rappresentanti – non sia una mistificazione. Il mandato politico, nella sua vera essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un uomo.
Intenzioni senza dubbio sincere e ragionevoli, ma forse gli mancava il passaggio che dagli italiani avrebbe portato agli italians i quali, convinti, come ragionevolmente affermava Marco Revelli, che la politica riproduce ormai senza controllo il male da cui dovrebbe proteggerci: disordine, violenza e paura, si rivolgono alle buone stelle gialle nella speranza che non diventino ben presto piccole nane bianche. A ciò, però, aggiungerei, oltre alla paura da patogeno immunoresistente buona strada per mantenere le posizioni, anche una dose di caos indotto, a cornice di un modello di potere fondato sul timore del futuro e sulla capacità salvifica del potente di turno sancita da redditi da cittadinanza, di emergenza e giocattoli senza età con monopattini quali ultima frontiera della crescita culturale popolare.
La verità, se ancora qualcuno non lo avesse capito in questi ultimi anni o mesi, è che Lilliput sembra trovarsi in Italia. Un’Italia nella quale l’esperimento della scoperta della vera natura della democrazia presentataci come tale si è dimostrato nella boria e nella supponenza di una classe politica che prescinde, ormai e senza illusione alcuna, da ogni rappresentatività popolare. La democrazia svela la sua essenza di essere la migliore mistificazione di un’oligarchia partitocratica che prescinde dai votanti.
Si realizza, così, non solo la menzogna politica di Swift che ci riduce a lillipuziani avendo perso la grandezza del passato, ma si concretizza la profezia di Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton che nel loro The Party System, meglio Partitocrazia, per la quale, referendum o meno, la democrazia apparente voluta dai partiti non sarà null’altro che il sistema più efficace per le segreteria e i leader di turno, sherpa compresi, per dominare il Paese consapevole di non poter essere allontanata dal popolo o da esso delegittimata. Un risultato che, in sella ad un monopattino, possiamo provare ad esorcizzare sino al prossimo muro, e al prossimo doloroso risveglio.