Scriveva Marshall McLuhan, di certo non l’ultimo degli sprovveduti, che le vere notizie sono quelle cattive. Ora, non si tratta tanto di soffermarci sul significato della parola verità quanto, a mio umile e probabilmente inutile avviso, su come e in che misura viene costruita una verità.
Al di là delle polemiche di questi ultimi giorni sull’ennesima spallata di un esecutivo che naviga a vista con una decretazione di natura amministrativa che non è emanazione di una legge - né, tantomeno, strumento di rango tale e approvato dal Parlamento utile per comprimere libertà costituzionali al di là di ogni ragionevole motivo - la realtà che viviamo è che la Calabria si trova a pagare il prezzo di una comunicazione errata, a volte strumentale. Certo, trovarsi in Zona Rossa non è piacevole per nessuno soprattutto per chi, oggi, dopo aver distribuito allarmismo nei mesi trascorsi, e anche comprensibilmente se si vuole ma non troppo, vede un ritorno del messaggio a danno di una regione che dell’emergenza ne ha fatto un motivo di coesistenza per decenni.
Abbiamo visto e letto notizie di ogni tipo, resoconti di tamponi positivi che, nella loro non piena affidabilità per riscontro e processo, aumenteranno l’onda lunga di un contagio che sarà così per molto tempo non potendo vivere ognuno di noi in una improbabile bolla impermeabile, condannando persone a quarantene illimitate nell’attesa delle verifiche e controverifiche. Una sorta di circolo vizioso, che incatena tutti in una sorta di domino perfetto, il cui superamento richiede una buona dose di coraggio e che i provvedimenti di chiusura non esprimono. E, cioè, una razionale e ragionevole capacità organizzativa e un impegno concreto senza per questo contrarre la vita quotidiana o sospendere l’erogazione di importanti prestazioni diagnostiche. Prestazioni, queste ultime, che non sono solo necessarie per curare una patologia in atto, ma fondamentali per una seria, responsabile politica sanitaria di prevenzione che non può dilatarsi nel tempo.
Insomma, non credo occorrano lauree ottenute in qualche blasonata facoltà di medicina per capire, con indipendente e sereno buon senso, che una comunicazione errata ha partorito effetti aberranti, grotteschi se non pericolosi ancor più del contagio possibile sulle persone, sulla loro capacità di tenuta non solo fisica ma mentale. Ed è quello che sembra stia accadendo e non solo in Calabria. L’idea di porre in Zona Rossa la Calabria, ma come anche altre regioni d’Italia - per l’idea che mi sono fatto di una gestione emergenziale al limite del parossismo - non è solo ingiustificata definendo un Rt sostanzialmente di soglia su un calcolo effettuato su dati non valutati sulla qualità delle persone e dei temponi effettuati (tralascio le critiche e i dubbi sulle sequenze temporali tampone molecolare-test immediati-tampone molecolare di verifica e sui risultati contraddittori che spesso ne seguono con la sospensione, in attesa di dieci se non più giorni, di libertà di movimento per il cittadino).
E’ il punto di arrivo di un modello sanitario che, al di là dei limiti di gestione, si muove disunito, frammentato, privo di un rapporto di fiducia con la popolazione. Un modello, o un non-modello, senza strategie coordinate che ripristinino un legame fondamentale tra sanità di comunità, sanità di prossimità e sanità clinica la cui assenza viene amplificata dall’incapacità politica. Non credo si tratti di esprimere concetti così difficili a “persone del mestiere” che leggono e che dovrebbero essere propositivi e non attendisti o emergenzialmente fermi a subire iniziative altrui. La realtà vera è che, commissariamento o meno, la sanità calabrese paga il conto del tempo e a tutto saldo regionale (ci dimentichiamo degli assessorati politici dalla sanità di ieri retti anche da laureati in medicina, ma con una particolare vocazione politica piuttosto che ippocratica?) dove dovrebbe essere la qualità di chi la gestisce a fare la differenza, la sensibilità al problema, la chiarezza di vedute, le soluzioni possibili e la capacità di agire e non le ambizioni politiche o le clientele.
Sul tema salute e sanità in Calabria sono state scritte negli anni centinaia di migliaia di pagine a vario titolo e dovunque (a cui aggiungerei anche le mie). Pagine, che permetterebbero di confezionare una Treccani del disastro e delle soluzioni mancate. Ma nessuna di queste pagine, foss’anche una parte, mi pare sia stata presa in considerazione. Tra esperti e politicanti di cui si sono perse le tracce, e che contano per curarsi sulle possibilità d’oltre regione se ne avranno il tempo per usufruirne in caso di emergenza, e sindaci che si muovono in ordine sparso e che proclamano bollettini quotidiani, la Calabria si è tinta di rosso senza esserlo. Tutto questo, per una comunicazione scriteriata, che ha reso ancor più minima la fiducia dei calabresi nelle possibilità di cura ed assistenza offrendo, adesso, un assist incredibile al governo centrale. Una comunicazione che ha permesso, in termini di preventiva deresponsabilizzazione valutata su un indice di rischio potenziale, che la Calabria con minor rapporto di contagi per popolazione sia giunta a superare in proporzione ben altre regioni con dati completamente diversi, perché letti e comunicati in modo diverso. Ecco allora, che prima di ripercorrere strade già vissute di disapprovazione o di ricerca dell’untore del passato o del presente, forse dovremmo riprendere in mano la nostra vita.
Dovremmo chiederci perché abbiamo permesso che il disastro della sanità si trasformasse nella condanna di oggi di un’intera regione; perché si è preferito privilegiare negli anni una diffusione di regimi privati in convenzione su diagnostica e ricoveri invece di investire nel diritto di tutti di essere curati in strutture complesse distribuite nel territorio regionale e posti letto, si, ma ragionati e non creati per supportare reparti non necessari. La verità, e con questo concludo, è rappresentata oggi da un’urgenza, o emergenza, diversa: quella di avere il coraggio di creare una politica della salute che rilanci la medicina di prossimità e di comunità aumentando le capacità diagnostiche periferiche quali attività di prevenzione, di cura e di pre-ricovero.
Si tratta di investire su capacità di Medicina d’Urgenza che non è quella dell’etichetta che si trova vagando in una corsia, ma una struttura complessa con capacità chirurgiche che si colloca razionalmente a metà strada tra la gestione dell’emergenza e l’ospedalizzazione successiva. Si tratta di incentivare le attività di screening sul territorio e di assistenza a domicilio degli anziani. Si tratta di ripristinare la figura del medico scolastico di circolo/distretto/istituto comprensivo. Si tratta, alla fine, di premiare le idee e le competenze dei medici di frontiera e del 118, spesso dimenticati e non il medico in cerca di voti perché in lista alle elezioni del momento (quanti di questi professionisti nel passato e con quali risultati per la sanità della Regione?).
Se così non sarà, nel dramma unico e sconsolante di oggi, non ci resterà che affidarci al solito dilemma di trovarci in balia di un governo assente e che impone regole non comprese e ricorrere alle vecchie cure delle nonne che, laureate dalla vita, esprimevano nelle piccole cose una cultura del rimedio. Una cultura di certo oggi scomparsa per fare posto ad eccellenze virtuali; ad una pseudoscienza, se non a sedicenti scienziati di ogni genere e di ogni dove, che nell’assenza della politica vera sguazzano nelle nostre esistenze.