C’è un passaggio ne I Viceré di Federico De Roberto che non può lasciare indifferente il lettore. Ed è quello per il quale giunti all’epilogo della sfida unitaria con il nuovo Regno, il principe Giacomo Uzeda dice con la serenità dell’uomo di potere vissuto: Ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri.
Sembrerà un luogo comune, quasi una sorta di plagio del dire d’azegliano che si preoccupava di fare gli italiani, popolo raro già da allora. Ma non è così. L’idea che esce da questa laconica affermazione, e che si pone a paradigma della sconfitta del Sud negli anni, è che non si trattava di difendere una pur minima concezione di unità nazionale o di identità regionale, ma di riuscire, al di là di ogni cambiamento possibile, a trovare il modo di potersi fare gli affari propri a prescindere da quello che sarebbe stato il nuovo assetto politico ritenendolo, in fondo, una semplice finzione. In questo, sia la politica unitaria del Regno come quella repubblicana a distanza più di un secolo sembra esserci riuscita e molto bene nel consolidare, soprattutto nelle regioni più deboli, un simile messaggio.
Oggi viviamo il punto di maggior espressione di uno dei modi nei quali un sistema partitocratico di gestione della sanità ha raggiunto la sua ennesima manifestazione di superficialità e di approssimazione. Un risultato che è il prodotto di anni di incuria e di strumentalizzazione di molti, troppi viceré della politica e della cosiddetta sanità pubblica. Un risultato di un modello di elargizione di posti e di cooptazione di consensi che non può, adesso, fare sconti a nessuno pensando che il commissariamento sia alla fine il male assoluto e non, invece, il prodotto di un sistema, perché di sistema si tratta. Ai tecnici di ieri, tra questi molti medici prestatisi alla politica divenuti dirigenti, se non assessori o onorevoli deputati o senatori, o ai commissari di oggi - figure dietro le quali si sono celate inadempienze e scarsità di politiche concrete votate all’efficienza e mascherate da esigenze di contabilità e controllo di spesa, con il risultato che si è speso ancora di più e ancora una volta male - direi che non andrebbero riconosciuti spazi di immunità.
Per questo, senza voler difendere nessuno - e senza abbracciare cause perse, nell’evidenza che nessuna parte recitata nel teatro delle ombre della politica regionale può oggi assumere dignità di alcun tipo - cercherei di offrire l’occasione al lettore per una riflessione sincera. Una riflessione necessaria per guardare con onestà intellettuale quanto accaduto, quanto accade e forse, e ancora una volta, quanto accadrà se non riusciremo a fare dell’umiltà del mea culpa una condizione di rinascita. Il sistema della sanità calabrese non è mai stato avulso dalle logiche di chi lo ha visto come uno spazio di potere. In mano a Viceré di ogni dove e a dinastie politiche, la salute non è mai stata dagli anni Settanta in poi un interesse di tutti, ma un affare per pochi o per chi riusciva ad accedere in tempi brevi a qualità migliori. Ed è proprio per questo che, sommata al viatico di fondi e restituzioni che l’accompagna, essa ha rappresentato la preda più ambita, al Sud come altrove, degli appetiti partitocratici.
Non era un caso che nel passato, e la memoria non è certo corta ancora oggi, che in ben note strutture era la tessera e il simbolo della tessera che faceva la differenza nelle assunzioni possibili e in quelle meno probabili. Una spartizione della salute, e delle dirigenze, che poi si è raffinata man mano, nella liquidità dell’ideologia da mercato - che ha contraddistinto decenni di vita politica calabrese dove il trasformismo è divenuto regola con buona pace della coerenza - nel gioco della sanità privata convenzionata.
Un’offerta, quest’ultima, vista quale utile sostituto nella diagnostica e non solo, alla incapacità, o alla non volontà, pubblica, di offrire un servizio puntuale, quasi come se le risorse non uscissero poi dalle stesse tasche. Insomma, in un modello così raffazzonato, dove tante ricette si sono perse nel tentativo di fare del gulash regionale una pietanza quanto meno digeribile per molti, dovremmo essere sinceri con noi stessi che un sistema, fatto di clientele, di corsie preferenziali è stato il prodotto possibile anche di una compiacenza diffusa. Di un modo individuale di vedere come e in che misura riuscire a poter disporre di un servizio ricordandosi, o ricordando, che mi mandava Picone. Una visione dell’idea di pubblico servizio dimensionata alle capacità del singolo individuo nel riuscire, o meno, a poter accedere, grazie a ginniche prodezze di conoscenze, a quello che doveva essere un diritto di tutti: curarsi!