Probabilmente qualcuno si chiederà se stavo leggendo o rivisto un film il cui incipit si affida all’infinita serie dei C’era una volta, o se volete dei Once upon a time da ricordo anglosassone che non guastano mai, o se, per caso, qualcuno mi ha raccontato una qualche storia su una regione che era e che non è più. No!, direi nulla di tutto questo.
In verità scorrevo qualche foto ingiallita nel tempo e un album pubblicato anni fa e mai rieditato che è la raccolta delle istantanee di Zanotti Bianco a cui ho aggiunto alcune di famiglia. Si, quel Zanotti Bianco di cui ogni tanto, per eleganza o malcelato senso dell’acculturato da bar dello Sport, tiriamo fuori da chissà quale antro della nostra fragile memoria. Sfogliavo, vi sembrerà strano, su una scrivania del profondo Nord(e) foto e immagini di una Calabria povera, dura, celebrata da contadini con gli asini e le bisacce che penzolavano a mò di sella e sulle quali anch’io, (ahimè!) lustri fa, cercavo la posizione migliore per addolcire un passo che di dolce aveva ben poco per chi stava sulla groppa.
Sfogliavo foto e immagini di donne con la treccia che nascondeva lunghi capelli avvolti in un rito che si svolgeva ogni giorno, nella lentezza che solo le nonne potevano apprezzare. Sfogliavo foto e immagini di case di gesso ordinate e di aiuole curate nella loro semplicità o piccoli viottoli che nell’umidità delle loro piante, che ne facevano cornice spontanea, sembravano ornarne i bordi. Insomma, nella semplicità di tali foto e immagini sfogliavo una Calabria che oggi non si riconosce.
Una regione nella quale se la criminalità sfrutta gli spazi da anni di uno Stato che rinuncia, al di là dei proclami e delle nobili intenzioni, a mantenere ciò che promette, vi è poi una borghesia che ha creduto che il lusso non avesse dei limiti o il potere dei costi da pagare verso se stessi e non solo verso i meno fortunati potesse vivere di se stesso all’infinito. Dovevamo fare della semplicità il momento di partenza verso orizzonti di crescita, affrontando il futuro con realismo, e invece ci siamo persi nello scimmiottare vite di altri, nobiltà senza corone e pensieri in affitto solo perché incapaci di guardare a noi stessi, quasi vergognandoci del nostro passato.
Eppure oggi, dopo commedianti e tragediatori da far invidia a qualunque cast cinematografico o teatrale, vorremmo cambiare, vorremmo essere diversi, magari cercando di vivere una vita che torni indietro, magari meno individualista e più votata alla condivisione. Vorremmo abbattere quel senso di frustrazione di essere ultimi, marginali pur essendo a metà strada tra il Mediterraneo e l’Europa che conta. Vorremmo credere che il rispetto di una terra sia il risultato di capacità messe in campo, l’esatta conseguenza di una società semplice che non si abbandona alle lusinghe del vivere facile.
Probabilmente, vorremmo dimostrare di non essere parte di un retropensiero, ma vivace manifestazione di un riscatto che dipende da ognuno di noi. Ma per fare questo dovremmo abbandonare anni di storia costruita sulle facili promesse, sull’illusione che ogni giorno sia diverso per poi arrenderci alla comoda, ma non sempre, rassegnazione del quotidiano.
Credo che la Calabria di un tempo forse aveva poco, ma quel poco era ordine, cura, solidarietà sincera seppur a volte franata nelle piccole beghe di famiglia, dove il dramma diventava epilogo solo di quell’incomprensione di chi pretendeva di amministrare senza anima. Ricostruire la Calabria si può certo fare. Ma ci vuole una narrativa che parta dalla semplicità del ricordo dei nostri nonni e delle nostre nonne, dei nostri emigranti per terre lontane e da chi oggi lascia per necessità o per stanchezza, mentre pochi ancora approfittano di ruoli e rendite per baronaggi ormai all’ultima fermata.