Le ultime vicende che caratterizzano la vita del Paese non sono molto rassicuranti. Sembra quasi che la storia abbia deciso impietosamente di mettere a nudo non solo le contraddizioni del nuovo tempo attraverso un’emergenza pandemica che colpisce ovunque, più o meno, ma anche le fragilità e la supponenza di una generazione che credeva di poter conquistare ogni cosa: il mondo, la natura, gli uomini e, perché no?, anche se stessi.
In realtà, tra leader improponibili e politiche di profilo mai così basso nella storia non credo che la Calabria, nel suo piccolo faccia eccezione. Tra le paure dei primi mesi dello scorso anno, richieste di truppe anti-untori ai confini di Lagonegro e commissari che vivevano in mondi paralleli, ma non li vedo approdati su spiagge certe neanche oggi, non si vede fine alla storia apertasi dall’armadio di una Narnia che si svolge nelle vallate di un fantastico mondo, dove il quotidiano supera ogni percezione surreale di quanto accade.
Dalla corsa alla cura miracolosa che nasce dalla nostra atavica paura della fragile esistenza al paradosso della sospensione del vaccino, somministrazione durante, a Cosenza e di quel lotto poi in tutto il Paese. In questa matrix ormai quasi tutta italiana e calabrese per quanto ci riguarda, credo che dovremmo riflettere su quanto e in che misura abbiamo titolo per lamentarci. In genere, si raccoglie sempre quanto si semina e non vedo oggi differenze con un passato che esorcizziamo, quasi non avesse nulla da insegnarci anche solo come monito. In genere, si dice che è nei momenti straordinari che si vede la qualità delle persone, nella capacità di rispondere, di valutare, di non fare massa e di affidarsi a quel buon senso e quel sano spirito critico che non si acquista al mercato del sabato.
E’ nei momenti straordinari che si vede la qualità di un servizio sanitario, di chi amministra, o di chi si è voluto assumere la guida di una comunità o degli stessi responsabili della comunicazione a cui si chiede una sola cosa: infondere fiducia e serenità anche di fronte al dramma incombente e non fare del dramma una condizione da copertina. Invece, chiunque ha risposto come ha creduto andando sopra il diritto allo studio, il diritto al lavoro, il diritto a visitare i propri affetti, il diritto a cure puntuali, somministrate con umanità e con dedizione senza chiudersi nel burocratese o aspettare la pozione magica del momento. E, questo, perché le emergenze fanno parte della vita e pensare di scansarle per poi trovarsi a doversi confrontare con queste compulsivamente non fa che da moltiplicatore di angosce e genera paure che si traducono in intolleranza se non rifiuto.
Quanto accaduto a Cosenza come nel resto del Paese non riguarda un lotto ma un modo, una cultura, una coscienza che non abbiamo e che, al contrario, dovrebbe indurci a guardare il nemico, per quanto oscuro e subdolo esso sia, con serietà combattendolo soprattutto senza distruggere la vita di ogni giorno. Morire civilmente è come far vincere proprio quelle tenebre che vorremmo combattere e che poi, per paura, rischiamo invece di stendere ogni giorno diffondendo un alone di sofferenza nei più deboli o nei più piccoli che non potrà non avere effetti nel lungo periodo, oltre ad aumentare la sfiducia in coloro che hanno voluto, liberamente, assumersi ruoli per i quali ben altre sensibilità e coraggio sarebbero richiesti.
La vera vittoria è data dalla vita stessa, dall’affrontare ogni avversario a viso aperto e credere sempre che chi ci sta a fianco è sempre un alleato e non una minaccia. Forse anche in Calabria, ma come in Italia, dovremmo cambiare storia, aprirci ad una nuova narrativa costruita con una antica grammatica fatta di vecchie parole come coraggio, serenità, fiducia, amore per la vita e per il prossimo e rispetto, e chiudere definitivamente un armadio di tristezze lasciato aperto per troppo tempo.