Non è la prima volta che ricorro a titoli delle canzoni di Rino Gaetano per scrivere di argomenti che ci riguardano da vicino. Non si tratta solo di affinità elettive o di ricordi da «Ciao2001» (qualcuno se la ricorda?) tipici di liceali snob cresciuti all’ombra di una villa comunale.
Riconosco al cantautore crotonese non solo quella ironica e impietosa descrizione di una società dei più furbi ma, soprattutto, quella nostalgia di un Sud popolare nel quale le vite si svolgono con una vera e sincera stima del proprio io e della propria condizione. A tutti noi, ce lo diciamo in tutti i modi e con ogni parola condita da retoriche comode e semplificate, che ci piace il Sud. Ma non andiamo oltre che l’autoreferenzialità e la negazione del nostro passato salvo se, a ricordarcelo, o a raccontarcelo, non sia qualche buon forestiero. E non si tratta solo di decantare le nostre eccellenze, a volte disperse nell’autocelebrazione politica, ma di guardare alle nostre vite cercando di attribuire un senso, un significato che possa costruire una coscienza comune che ad oggi non esiste.
A noi piace il Sud, ma non questo Sud. Non un Sud che si accontenta delle solite narrative dove ognuno, ancora una volta e noiosamente, crede di aver trovato la pozione magica tra dichiarazioni e fantasie post-elettorali. A noi piace il Sud, la Calabria, ma non quella Calabria dove tutti hanno vinto perché un seggio alla regione sembra non si neghi a nessuno o quasi. A noi piace il Sud che guarda avanti, una Calabria, in particolare, che sproni se stessa verso una politica partecipata e orizzontale e non serva di un verticalismo familistico o, ancora peggio, subordinata alle vanità del momento. Eppure la domanda è come fare per cambiare non solo narrativa, ma come comunicare che esiste un Sud, una Calabria, diversa, nuova, consapevole dei suoi limiti e sdoganata dai condizionamenti di chi, nel gioco delle associazioni pseudoculturali di vario genere, ne vorrebbe ancora una volta determinarne il destino.
Non è certo molto semplice. In fondo, abbiamo perso il valore della semplicità, orientando i nostri interessi verso lo scimmiottamento di comportamenti consumistici come se fosse questa la ragione del sacrificio dei nostri padri e delle nostre madri. Abbiamo scelto la strada del facile impiego o dell’assistenza senza contenuti, pensando che il futuro risiedesse nelle mani di filantropi di vario genere. Forse dovremmo, come bambini, ritornare a tirare calci ad una zolla di terra, un gioco per smuovere ciò che si ferma per volontà di remissione. Una remissione, una rassegnazione che spegne ogni lampara che vorrebbe illuminare il mare delle nostre coscienze.