Scriveva anni fa un pungente Ennio Flaiano che “Vivere è diventato un esercizio burocratico.” Ovvero, una sorta di confronto tra procedure e gestione delle stesse se non delle richieste o delle risposte che navigano nel mare delle competenze, vere o presunte che siano.
Vi fu anche chi, in fondo, andando ben oltre tale assunto affidava alla burocrazia quel potere di dire sì o no, o di gestire o meno fondi possibili, certi, o già assegnati per le finalità più disparate. Ora che l’emergenza pandemica abbia di fatto sospeso attività di socializzazione per asserite necessità di contenimento di un patogeno che ha assunto una rilevanza più politica che sanitaria è un dato di fatto. Una popolazione scolastica che sino a due anni fa era libera di contagiarsi di ogni cosa viste le condizioni igieniche con le quali tutti noi ci siamo confrontati per anni, che si è trovata sola con se stessa, tra lezioni in remoto o negazione di quella vita sociale che per i ragazzi pre-adolescenti è pedagogicamente importante nella sua semplicità.
Una popolazione di ragazzi e ragazze di diverse età, dai più piccoli agli adolescenti, costrette a rinunciare a quelle minime occasioni di socializzazione che il nostro territorio offre, al netto delle manifestazioni similculturali che ogni tanto affiorano nelle iniziative di qualche amministratore. Eppure, tra una pausa e l’altra offerta da un pericolo che sembra presentarsi in tempi e spazi diversi e non con continuità, c’è chi sottolinea oggi come ciò che poteva essere fatto e finanziato per favorire la ripresa della vita dei giovani non è stato fatto e chi risponde che purtroppo si è arrivati in ritardo nonostante gli stanziamenti, o che le risorse umane di una burocrazia comunale erano scarse per occuparsi anche di questo. Ora, senza citare fatti specifici o confronti in consigli comunali che non sanno di teatro, anche se a volte ne creano scenografie da operetta, non si può, quale rassegnata occasione, osservare come e in che misura ci si perda ancora nel solito gioco di chi recrimina e di chi si giustifica.
Un gioco, questo, che mette in luce l’assenza di prospettive comuni e condivise che dovrebbero non solo essere la strada preventiva per ogni decisione possibile, ma l’espressione di una unica volontà vista la particolare condizione di limitata fruibilità di servizi e di occasioni per i giovani di riprendere in mano un quotidiano negato. L’idea di non favorire la ripresa dei centri estivi, ad esempio, non ha trovato giustificazione in altre parti d’Italia dove, pur nel rispetto delle normative emergenziali, tuttavia si sono riaperte quelle occasioni di socialità che non solo potevano e hanno soddisfatto le richieste del genitore/lavoratore, ma restituita a ragazzi e ragazze la voglia e la necessità di stare insieme, nei centri estivi mancati ad altro.
Restituita quella gioia di vedersi parti di un piccolo mondo. Perché stanchi di vivere in un isolamento che di per sé rappresenta un prodromico e imperdonabile, se non una pericolosa, condizione per favorire quelle malattie psicofisiche che dalla rinuncia e dall’esclusione vedono maturare nuove forme di patologie sociali che non possono essere ritenute meno gravi se non altro per i risultati a lungo termine cui queste tendono.