
Tuttavia, il cinema è una parte della nostra vita non solo culturale ma sociale perché si ancora al nostro vissuto quale rappresentazione di ciò che ci circonda, di quanto il mondo ci avvolge e ci rende protagonisti consapevoli o a volte a nostra insaputa di fatti, eventi, sentimenti, drammi e malinconie che sono parte della nostra vita. Se poi sei calabrese, allora le cose si complicano, certo non si semplificano, sarebbe impossibile, e non si addolciscono soprattutto. E, in particolare, non si placano le narrative che del nero ne hanno fatto un colore che ci accompagna ogni giorno, ogni momento delle nostra vita e della nostra storia, quasi costringendoci a vivere in un continuo lutto bagnato solo a momenti da lacrime di grazia nella speranza che quel libro o quel film ci concede per sua bontà.
Ora, che si tratti di una “Sposa” o di “una Femmina” vittima di patologie di una società considerata retrograda e senza anticorpi non è questo ad essere messo in discussione. Che drammi personali si siano compiuti nelle nostre contrade nessuno li vuol celare al diritto di una cronaca a volte impietosa, se non alla ricerca morbosa di una disperazione da vetrina. Ma ricondurre ogni volta il copione a dare della Calabria, con tutti i limiti e le riserve del caso, la solita e immancabile immagine di una landa desolata del Paese, divisa nel suo tempo tra crimini e grottesche relazioni patriarcali che non assolvono nessuno diventa oggi francamente insostenibile.
Nessuno nega riti patriarcali per giustificare una cultura sessista ai danni delle donne. Ma, altrettanto, che dire, allora della sottesa tradizione matriarcale di decidere in famiglia ciò che andava fatto e ciò che non andava fatto? Conosciamo tutti e bene il valore e il peso specifico nelle decisioni prese in famiglia delle nostre nonne. Così come ci sono atti e fatti di cronaca nei quali esiste un femminino sacro nelle regole dell’onore che vede la donna porsi al di sopra dell’uomo e al di sopra di ogni regola, perché ci sono state donne che hanno sostenuto, se non fatti propri, sentimenti di vendetta.
Donne assunte alla cronaca a difesa di un nome o di un cognome, sostenendo contro ogni evidenza presunte innocenze senza scampo. Se si vuole esser sessisti ci vuole poco, essere uomo o donna poco importa in un sistema, quello criminale, che raccoglie dei due sessi gli aspetti devianti e le qualità di leadership migliori che le due metà del cielo possono offrire. Chi sostiene che le società meridionali, se non mediterranee siano patriarcali, o non conosce il Sud o non è onesto con se stesso. Non è chi si approssima ad un calzone che di fatto è colui che decide. Così come chi soffre o cerca un riscatto non sempre appartiene ad un solo sesso.
Riscatto e voglia di riprendersi in mano la vita riguarda molti calabresi e il valore di tali parole non ha un maschile o un femminile in particolare, ma li comprende entrambi. Credo che al regista di “Una femmina” andrebbero raccontate per parità di sacrificio storie di uomini minori, o di donne silenziose il cui riscatto era nel condurre una famiglia. Continuare a fare sessismo di ritorno in questo modo non solo offende le donne e coloro che hanno certamente sofferto ma anche chi, nella sofferenza ha cercato di trovare se stesso. Fellini non sarà un mio idolo come regista.
Non sono un felliniano perché non cerco nel surreale o in visioni oniriche di un vissuto di ricondurre una mia visione del mondo. Ma credo che Fellini avesse ragione quando, tra le tante cose che diceva di aver imparato nella vita, ne indicava una in particolare: e cioè che se ripeti una parola tante volte, all’improvviso essa perde di significato. Ecco, a ripetere molte volte una parola o una narrazione che a senso unico non lascia vie di fuga se non speranze, ogni storia di criminalità o di emarginazione rischia di non avere più un senso, rischia di cadere nel qualunquismo di un racconto vero ma non più ricercato, non più compreso e, ancora peggio, non più capito e per questo, ancora peggio, evitato.