Ognuno ha sicuramente argomenti che individuano interessi altrettanto differenti nel seguire le vicende dell’attualità secondo proprie propensioni, o curiosità, che ne spingono l’attenzione verso eventi che hanno una loro caratterizzazione: la politica interna, la politica estera, il calcio, la cronaca, l’economia. Ma la vicenda di Cogne rappresenta un evento che coinvolge tutti. Per curiosità, per afflato mediatico, perché è la libertà da una parte e la giustizia dall’altra che si contrappongono in maniera significativamente concreta, dimostrando quanto le ragioni dell’una siano profondamente legate alle ragioni dell’altra. Ragioni contrapposte che si completano, però, se non altro per debito dovuto al rispetto di un principio di legalità che sostiene la vita della comunità attraverso le regole che essa stessa si è data.
Non si tratta, quindi, solo di commentare la sentenza in sé, né di approfondire scolasticamente sull’opportunità di trasformare una vicenda giudiziaria in un talk show itinerante, da un teleschermo all’altro, o nel reality show per eccellenza di questi ultimi anni. Ciò che emerge è il dubbio, molto serio per un professionista del diritto, che si presenta su una mancata comprensione delle opportunità processuali che un sistema accusatorio offre alle parti: accusa e difesa. Cioè, se nonostante la pariteticità offerta alla difesa di provare e di ricercare gli elementi di prova, anche tecnicamente, si rinuncia al confronto dibattimentale in un clima di contraddittorio aperto fra le parti, non si riescono a capire, ancora oggi, le ragioni della scelta della difesa di utilizzare la formula abbreviata con tutti i limiti della procedura richiesta. Limiti che un sistema premiale costruito su una presunzione di colpevolezza esprime sia in termini di possibilità di difesa e, soprattutto, perché esso si attiva soltanto in funzione della richiesta della difesa, valutate le ragioni a favore evitando il contraddittorio, ritenendo sufficientemente valide le proprie argomentazioni e accettando il confronto con quelle altrettanto ritenute valide dall’accusa senza possibilità di far intervenire terzi a favore o introdurre elementi nuovi rispetto a quelli già depositati.
In sostanza, tranne che non ci si trovi inconsapevolmente ad un bivio storico sulla formula del sistema accusatorio italiano, la cui efficacia viene ad essere affidata ad un caso quale quello di Cogne, non si comprende perché la strategia difensiva, ammesso che ne esista una, non abbia non scelto il dibattimento come rito più aderente ad un caso già discusso, e discutibile, fuori dalle aule. E non si comprende perché ancora la difesa non abbia ritenuto che proprio il dibattimento le avrebbe consentito di introdurre tutte le prove a favore in pieno, trasparente, e lucido contraddittorio con l’accusa, potendo così citare anche eventuali testimoni e trasformare gli stessi in indagati qualora fosse riuscita a dimostrarne la non estraneità ai fatti, se così non ritenuti anche dall’accusa.
Ciò che resta, in sostanza, fermo nelle menti di chi crede di aver capito quanto basta di come funziona il sistema accusatorio è l’inspiegabilità della difesa di non aver cercato di capitalizzare in dibattimento gli eventuali elementi di prova a favore, o di introdurne di nuovi in dibattimento durante. E non si comprende, quindi, perché la difesa abbia optato per un rito più celere, che presume una dichiarata volontà ad essere giudicato in formule sintetiche, nel tentativo di ottenere ciò che non poteva essere ottenuto con buone probabilità: una dichiarazione/sentenza di innocenza. Non si tratta di imitare un processo all’americana. Ma sicuramente la cultura del Perry Mason stenta ancora ad affermarsi al di là delle parcelle delle difese e dei risultati ottenuti o ottenibili. Una cultura che porti la difesa a valutare e difendere in contraddittorio con l’accusa l’innocenza del cliente, o a sostenere una giustificazione premiabile della colpevolezza oggettiva, se dimostrata incontrovertibilmente dall’accusa, che spieghi la condotta dell’imputato e ne attenui le conseguenze della sanzione.
Tutto ciò perché la prova si forma solo in dibattimento e nel pieno contraddittorio fra le parti. Perché i riti abbreviati hanno un significato e rispondono a ragioni di politica criminale e di economia processuale che non si adattano a situazioni caratterizzate da forte prevalenza di elementi indiziari sia da una parte che dall’altra. Così, le stesse dichiarazioni della difesa rese al di fuori dell’aula possono essere tali se si identificano nell’animus del dibattimento, nella sostenibilità degli elementi a favore o contro presentati a sostegno o a carico di presunti mandanti, presunti omicidi, presunti innocenti. Altrimenti non possono che danneggiare ulteriormente la condotta futura della difesa, oltre che alimentare un antipatico giustizialismo fra innocentisti e colpevolisti minando il già critico sistema giudiziario italiano.
In sostanza, tranne che non ci si trovi inconsapevolmente ad un bivio storico sulla formula del sistema accusatorio italiano, la cui efficacia viene ad essere affidata ad un caso quale quello di Cogne, non si comprende perché la strategia difensiva, ammesso che ne esista una, non abbia non scelto il dibattimento come rito più aderente ad un caso già discusso, e discutibile, fuori dalle aule. E non si comprende perché ancora la difesa non abbia ritenuto che proprio il dibattimento le avrebbe consentito di introdurre tutte le prove a favore in pieno, trasparente, e lucido contraddittorio con l’accusa, potendo così citare anche eventuali testimoni e trasformare gli stessi in indagati qualora fosse riuscita a dimostrarne la non estraneità ai fatti, se così non ritenuti anche dall’accusa.
Ciò che resta, in sostanza, fermo nelle menti di chi crede di aver capito quanto basta di come funziona il sistema accusatorio è l’inspiegabilità della difesa di non aver cercato di capitalizzare in dibattimento gli eventuali elementi di prova a favore, o di introdurne di nuovi in dibattimento durante. E non si comprende, quindi, perché la difesa abbia optato per un rito più celere, che presume una dichiarata volontà ad essere giudicato in formule sintetiche, nel tentativo di ottenere ciò che non poteva essere ottenuto con buone probabilità: una dichiarazione/sentenza di innocenza. Non si tratta di imitare un processo all’americana. Ma sicuramente la cultura del Perry Mason stenta ancora ad affermarsi al di là delle parcelle delle difese e dei risultati ottenuti o ottenibili. Una cultura che porti la difesa a valutare e difendere in contraddittorio con l’accusa l’innocenza del cliente, o a sostenere una giustificazione premiabile della colpevolezza oggettiva, se dimostrata incontrovertibilmente dall’accusa, che spieghi la condotta dell’imputato e ne attenui le conseguenze della sanzione.
Tutto ciò perché la prova si forma solo in dibattimento e nel pieno contraddittorio fra le parti. Perché i riti abbreviati hanno un significato e rispondono a ragioni di politica criminale e di economia processuale che non si adattano a situazioni caratterizzate da forte prevalenza di elementi indiziari sia da una parte che dall’altra. Così, le stesse dichiarazioni della difesa rese al di fuori dell’aula possono essere tali se si identificano nell’animus del dibattimento, nella sostenibilità degli elementi a favore o contro presentati a sostegno o a carico di presunti mandanti, presunti omicidi, presunti innocenti. Altrimenti non possono che danneggiare ulteriormente la condotta futura della difesa, oltre che alimentare un antipatico giustizialismo fra innocentisti e colpevolisti minando il già critico sistema giudiziario italiano.