Ci sono molti modi per affrontare gli equilibri di potere tra le istituzioni. E vi sono altre strade per risolvere inefficienze strutturali, per dare una dimensione più efficientista e adeguata alla domanda della società civile di una maggiore serietà dei giudici, di una macchina processuale più rapida. Una giustizia che, sia nel giudizio penale che in quello civile, possa assicurare una celerità ed un’apprezzata certezza della pena di fronte ad una supremazia del diritto preliminarmente difesa da chi deve far funzionare la macchina giudiziaria: magistrati e legislatore. Una giustizia che sia, una volta per tutte, il chiaro specchio della civiltà giuridica raggiunta da una comunità politica, l’unico momento nel quale tutti i cittadini sono uguali nei diritti e nei doveri, negli obblighi, nelle responsabilità di fronte al Paese e alla collettività sia per quanto commesso in violazione delle norme che nell’essere destinatari di diritti non corrisposti.
Tra le tante strade percorribili una di queste è riformare l’ordinamento giudiziario, seriamente, concretamente, con volontà comune e consenso allargato. Una via che, ancora oggi, per motivazioni diverse, ma che coinvolgono entrambi gli schieramenti per incapacità a riformare, né la sinistra né la destra sono state capaci di seguire poiché strumentalmente dimentiche nel comprendere che la giustizia è nello stesso tempo un servizio ed un valore fondamentale nella tenuta di una comunità politica. Ancora una volta non è il problema del momento la causa della deriva giudiziaria, né con la sospensione dei processi si risolve il dramma delle lungaggini delle inchieste restituendo attenzione ai reati ritenuti di maggior allarme sociale.
Non è con decreto che si riformulano gli assetti di una macchina complessa e articolata come la giustizia che fonda la sua legittimità, e con questa quella della classe politica e della comunità di cui ne è espressione, evitando eccezioni e decongelando ogni posizione che viola norme sostanziali. Ma è con la riformulazione del processo penale, nell’indicazione esatta dei ruoli e dei limiti delle parti, nella definizione delle modalità attraverso le quali la giustizia, soprattutto quella penale, deve essere realizzata che si potrà ottenere un risultato apprezzabile e duraturo. Il vero dramma è che, da un punto di vista sostanziale, viviamo gli effetti perversi di una riforma del processo penale che ha introdotto un rito accusatorio parziale e che nella sua parzialità lascia aperte molte lacune nell’interpretazione del fine. Un sistema processuale che avrebbe dovuto prevedere non solo la separazione delle funzioni, ma la distinzione delle carriere dal momento che, al di là della superficiale valutazione politica offerta in passato su tale proposta, un processo accusatorio si fonda sulla tradizione di un rito di diritto comune già sperimentato in altre civiltà giuridiche, alle quali ci siamo ispirati recependone solo gli aspetti che ci sarebbero convenuti. Un processo nel quale la comunità tutela se stessa attraverso una pubblica accusa che rappresenta l’esercizio pubblico di un’azione penale obbligatoria, e laddove è discrezionale ma non arbitraria, dal momento che la valutazione sulla necessità a procedere risponde a formule di valutazione di economia processuale che non pregiudicano il ricorso a strumenti risarcitori più immediati nei reati che non sono contro la persona, di particolare allarme sociale e associativi in genere.
Il processo accusatorio, per funzionare, necessitava, quindi, di un ordinamento giudiziario diverso da quello di oggi. Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, nella riforma del 1989 non ha, sostanzialmente, tranne l’introduzione di alcune figure strumentali - quali il giudice delle indagini preliminari come garante e il servizio di polizia giudiziaria a supporto del pubblico ministero garantito da uomini delle forze di polizia distaccati presso le diverse procure - modificato gli assetti dell’ordine giudiziario. Ed è questa la vera anomalia a monte che nessuno percepisce o non ha voluto percepire. L’esercizio dell’azione penale, e la tutela della pari dignità delle parti, può essere garantita solo da una funzione esercitata dai pubblici ministeri senza alcuna possibilità di sovrapposizioni o promiscuità di intenti con le altre figure pre-dibattimentali e processuali. E non solo. A ciò deve seguire l’attribuzione alla polizia giudiziaria di una dimensione pre-processuale che non si esaurisce solo nella fase preliminare delle indagini. Ciò avrebbe permesso, e realizzato, quella parità tra accusa e difesa oggi prevista, ma non consolidatasi nella cultura del processo dal momento che il confronto non dovrebbe essere tra il sostituto-giudice e l’indagato, ma tra la comunità, rappresentata dalla pubblica accusa e dalla giuria popolare in dibattimento, e l’individuo che ha causato il danno a cui si garantisce pari possibilità di essere attore del e nel dibattimento.
In questo, un rito accusatorio pieno realizza la vera parità delle parti e la dimensione pubblica del processo penale con un giudice che, terzo rispetto alle parti, è solo tenuto ad applicare la pena in ragione della pronuncia di colpevolezza o di innocenza dei giurati. E non solo. La sopravvivenza di un modello ordinamentale superato, con carriere così poco dinamiche e giustificate da un’inamovibilità dei magistrati non sempre garanzia di indipendenza, non si adatta ad un sistema di giustizia che dovrebbe essere fondato sulla capacità delle parti di giocare il proprio ruolo, di garantire pari opportunità di difesa, di accusa e di giudizio. In Italia, infatti, non è possibile far entrare in magistratura avvocati con una certa esperienza maturata nella professione condotta senza demerito o ufficiali di polizia giudiziaria che, provvisti di pari titolo di studio, abbiano compiuto la propria attività nell’esercizio delle specifiche funzioni per un certo numero di anni. Oggi l’accesso è consentito soltanto attraverso un concorso ordinario che, retrocedendo esperienze e profili economici a chi, intendendo concorrere, appartiene a queste due categorie professionali mira a mantenerne rigido il reclutamento.
Un risultato che, di fatto, esclude esperienze significative che potrebbero essere immesse nell’ordinamento giudiziario con grandi risultati in termini operativi (avvocati penalisti, civilisti, amministrativisti, ufficiali della guardia di finanza, dei carabinieri, funzionari di polizia che, molto spesso, si trovano quali interlocutori giovani uditori neovincitori di concorso, già sostituti procuratori, con esperienza ed età molto inferiore e non pari alle precedenti figure professionali, ma che si collocano in posizione direzionale di ben altro profilo). L’ibrido rito italiano, insomma, è servito solo ad introdurre formule di giudizio abbreviate che sarebbero state strutturalmente incompatibili con la natura inquisitoria del vecchio processo penale, nel convincimento che ciò avrebbe permesso uno snellimento dell’arretrato e una maggior velocità nella gestione dei processi.
Un risultato che non si è verificato perché nessuno ha voluto, per non rivoluzionare l’ordine giudiziario preesistente, comprendere che il passaggio obbligato a formule accusatorie interlocutorie, senza sovvertire completamente l’architettura del rito e delle parti, soprattutto quelle togate, non avrebbe completato la cornice funzionale. Ciò dimostra, ancora una volta e se ce ne fosse bisogno, che non si possono riformare sistemi processuali con formule intermedie e, nemmeno, tentare la strada del cambiamento temporaneo con la decretazione d’urgenza. È una riforma del processo penale quella che dovrebbe essere seguita se si vuole restituire credibilità ad un modello, adottando una volta per tutte un rito accusatorio pieno, concreto, trasparente nei ruoli e nelle modalità di funzionamento, nell’individuazione delle parti, nella parità garantita di fronte alla legge e alla comunità.
È seguendo la strada della riforma vera di carriere e uffici, della fine del corporativismo negli accessi, che si tutela la vera autonomia della giustizia. Una strada che tende a restituire immagine ad un potere importante per la vita del Paese, che restituirebbe credibilità alla classe politica e, soprattutto, porrebbe termine a discussioni e polemiche che imbarazzano il nostro senso di civiltà giuridica. Polemiche e scambi di accuse che il cittadino non riesce più a capire. Oggi le vere emergenze sono quelle di evitare che il Paese sia preda di un’interpretazione giudiziaria e giustizialista del diritto, che un sentimento di prevaricazione politica dell’interesse comune venga emarginato perché non appartenente alla tradizione democratica occidentale, che garantire parità di giudizio e pari dignità alle parti, nessuna esclusa attraverso la tutela del valore giustizia, sia un bene insostituibile per una comunità matura e per una pacifica convivenza tra eguali.
Non è con decreto che si riformulano gli assetti di una macchina complessa e articolata come la giustizia che fonda la sua legittimità, e con questa quella della classe politica e della comunità di cui ne è espressione, evitando eccezioni e decongelando ogni posizione che viola norme sostanziali. Ma è con la riformulazione del processo penale, nell’indicazione esatta dei ruoli e dei limiti delle parti, nella definizione delle modalità attraverso le quali la giustizia, soprattutto quella penale, deve essere realizzata che si potrà ottenere un risultato apprezzabile e duraturo. Il vero dramma è che, da un punto di vista sostanziale, viviamo gli effetti perversi di una riforma del processo penale che ha introdotto un rito accusatorio parziale e che nella sua parzialità lascia aperte molte lacune nell’interpretazione del fine. Un sistema processuale che avrebbe dovuto prevedere non solo la separazione delle funzioni, ma la distinzione delle carriere dal momento che, al di là della superficiale valutazione politica offerta in passato su tale proposta, un processo accusatorio si fonda sulla tradizione di un rito di diritto comune già sperimentato in altre civiltà giuridiche, alle quali ci siamo ispirati recependone solo gli aspetti che ci sarebbero convenuti. Un processo nel quale la comunità tutela se stessa attraverso una pubblica accusa che rappresenta l’esercizio pubblico di un’azione penale obbligatoria, e laddove è discrezionale ma non arbitraria, dal momento che la valutazione sulla necessità a procedere risponde a formule di valutazione di economia processuale che non pregiudicano il ricorso a strumenti risarcitori più immediati nei reati che non sono contro la persona, di particolare allarme sociale e associativi in genere.
Il processo accusatorio, per funzionare, necessitava, quindi, di un ordinamento giudiziario diverso da quello di oggi. Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, nella riforma del 1989 non ha, sostanzialmente, tranne l’introduzione di alcune figure strumentali - quali il giudice delle indagini preliminari come garante e il servizio di polizia giudiziaria a supporto del pubblico ministero garantito da uomini delle forze di polizia distaccati presso le diverse procure - modificato gli assetti dell’ordine giudiziario. Ed è questa la vera anomalia a monte che nessuno percepisce o non ha voluto percepire. L’esercizio dell’azione penale, e la tutela della pari dignità delle parti, può essere garantita solo da una funzione esercitata dai pubblici ministeri senza alcuna possibilità di sovrapposizioni o promiscuità di intenti con le altre figure pre-dibattimentali e processuali. E non solo. A ciò deve seguire l’attribuzione alla polizia giudiziaria di una dimensione pre-processuale che non si esaurisce solo nella fase preliminare delle indagini. Ciò avrebbe permesso, e realizzato, quella parità tra accusa e difesa oggi prevista, ma non consolidatasi nella cultura del processo dal momento che il confronto non dovrebbe essere tra il sostituto-giudice e l’indagato, ma tra la comunità, rappresentata dalla pubblica accusa e dalla giuria popolare in dibattimento, e l’individuo che ha causato il danno a cui si garantisce pari possibilità di essere attore del e nel dibattimento.
In questo, un rito accusatorio pieno realizza la vera parità delle parti e la dimensione pubblica del processo penale con un giudice che, terzo rispetto alle parti, è solo tenuto ad applicare la pena in ragione della pronuncia di colpevolezza o di innocenza dei giurati. E non solo. La sopravvivenza di un modello ordinamentale superato, con carriere così poco dinamiche e giustificate da un’inamovibilità dei magistrati non sempre garanzia di indipendenza, non si adatta ad un sistema di giustizia che dovrebbe essere fondato sulla capacità delle parti di giocare il proprio ruolo, di garantire pari opportunità di difesa, di accusa e di giudizio. In Italia, infatti, non è possibile far entrare in magistratura avvocati con una certa esperienza maturata nella professione condotta senza demerito o ufficiali di polizia giudiziaria che, provvisti di pari titolo di studio, abbiano compiuto la propria attività nell’esercizio delle specifiche funzioni per un certo numero di anni. Oggi l’accesso è consentito soltanto attraverso un concorso ordinario che, retrocedendo esperienze e profili economici a chi, intendendo concorrere, appartiene a queste due categorie professionali mira a mantenerne rigido il reclutamento.
Un risultato che, di fatto, esclude esperienze significative che potrebbero essere immesse nell’ordinamento giudiziario con grandi risultati in termini operativi (avvocati penalisti, civilisti, amministrativisti, ufficiali della guardia di finanza, dei carabinieri, funzionari di polizia che, molto spesso, si trovano quali interlocutori giovani uditori neovincitori di concorso, già sostituti procuratori, con esperienza ed età molto inferiore e non pari alle precedenti figure professionali, ma che si collocano in posizione direzionale di ben altro profilo). L’ibrido rito italiano, insomma, è servito solo ad introdurre formule di giudizio abbreviate che sarebbero state strutturalmente incompatibili con la natura inquisitoria del vecchio processo penale, nel convincimento che ciò avrebbe permesso uno snellimento dell’arretrato e una maggior velocità nella gestione dei processi.
Un risultato che non si è verificato perché nessuno ha voluto, per non rivoluzionare l’ordine giudiziario preesistente, comprendere che il passaggio obbligato a formule accusatorie interlocutorie, senza sovvertire completamente l’architettura del rito e delle parti, soprattutto quelle togate, non avrebbe completato la cornice funzionale. Ciò dimostra, ancora una volta e se ce ne fosse bisogno, che non si possono riformare sistemi processuali con formule intermedie e, nemmeno, tentare la strada del cambiamento temporaneo con la decretazione d’urgenza. È una riforma del processo penale quella che dovrebbe essere seguita se si vuole restituire credibilità ad un modello, adottando una volta per tutte un rito accusatorio pieno, concreto, trasparente nei ruoli e nelle modalità di funzionamento, nell’individuazione delle parti, nella parità garantita di fronte alla legge e alla comunità.
È seguendo la strada della riforma vera di carriere e uffici, della fine del corporativismo negli accessi, che si tutela la vera autonomia della giustizia. Una strada che tende a restituire immagine ad un potere importante per la vita del Paese, che restituirebbe credibilità alla classe politica e, soprattutto, porrebbe termine a discussioni e polemiche che imbarazzano il nostro senso di civiltà giuridica. Polemiche e scambi di accuse che il cittadino non riesce più a capire. Oggi le vere emergenze sono quelle di evitare che il Paese sia preda di un’interpretazione giudiziaria e giustizialista del diritto, che un sentimento di prevaricazione politica dell’interesse comune venga emarginato perché non appartenente alla tradizione democratica occidentale, che garantire parità di giudizio e pari dignità alle parti, nessuna esclusa attraverso la tutela del valore giustizia, sia un bene insostituibile per una comunità matura e per una pacifica convivenza tra eguali.