"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Giustizia. Equilibrio e potere

Giustizia. Equilibrio e potereLa riforma della giustizia, o, meglio, dell’ordinamento giudiziario, è nuovamente padrona delle prime pagine dei giornali e della vita politica del Paese. E’, ancora una volta, l’argomento che coinvolge maggioranza e opposizione in una sorta di confronto sull’efficacia dell’azione giudiziaria, sulla trasparenza di un potere che si sostituisce ad una classe politica incerta a debito di credibilità, rappresentata non da una sintesi progettuale ed ideologica nei fatti, ma da una corsa al potere diffuso esercitato nella vita amministrativa.
 
Essa richiama prospettive politiche diverse, rivolte a volerne modificare gli assetti tenuto conto che nelle vicende giudiziarie recenti, dall’indagine Why Not alle rocambolesche peripezie politiche napoletane degli ultimi giorni, frenesia mediatica, giustizialismo, sono sempre di più sentimenti che si sovrappongono man mano a realtà frutto di una reazione a trasversalismi maturati nell’ambito delle diverse, ma condivise a questo punto, compiacenti azioni amministrative.
 
Se questo è il quadro all’interno del quale si manifesta la necessità di riforma della giustizia ancorché di fronte alla debolezza di una classe politica incapace di rispondere con pari serietà, proviamo a costruire un percorso interpretativo sul perché una riforma sia comunque indispensabile senza abbandonarci a dogmi di partito o ad opportunismi del momento. Cominciamo con lo sgomberare il campo dal fatto che la riforma della giustizia soddisfi solo una necessità politica. In realtà è evidente che, nelle parodie processuali che si osservano quotidianamente, vi è una sorta di confusione dei ruoli e di incerta valutazione dell’interesse in gioco e per conto di chi. L’autoreferenzialità di un ordinamento giudiziario non è certamente un’esigenza molto democratica.
 
Essa si presenta come un’aberrazione del mandato. Un’aberrazione che nel processo penale si risolve nell’esercitare, troppo personalisticamente, la pretesa punitiva dello Stato di fronte a chi ha violato un diritto garantito alla collettività e al singolo in quanto parte. Mentre nel processo civile ci si dimentica, nella dilatazione dei tempi, della necessità di sanare contrapposizioni di interessi affermando un senso di equità al quale si affida l’ordinato svolgimento della vita civile ed economica di una comunità. Di fronte a tanto, la riforma diventa necessaria per ristabilire il rapporto tra individuo e comunità, tra il singolo e le leggi che tutelano la vita della comunità stessa e l’interesse della comunità che si è costituita in Stato di diritto. E’ evidente, quindi, che ogni patologia dell’ordinamento giudiziario che impedisce l’esatta formulazione del ruolo e delle funzioni dei magistrati si propone come una condizione di vulnerabilità.
 
Con queste premesse, e di fronte all’obiettiva necessità di ridefinire il quadro giuridico e costituzionale all’interno del quale ricondurre una possibile ipotesi di riforma, credo che sia fondamentale chiarire tre aspetti significativi e sgomberare il campo da strumentali valutazioni che possono portare ad un’ennesima riforma a metà di un potere determinante e delicatissimo per l’esistenza di un ordinamento politico democratico. Il primo è dato dalla riforma mancata dell’ordinamento giudiziario non avvenuta, ne proposta in verità, al momento della modifica del sistema processuale penale che introduceva un rito prevalentemente accusatorio rispetto a quello inquisitorio.
 
L’introduzione di un rito che doveva porre accusa e difesa sullo stesso piano, che avrebbe dovuto individuare nel giudice il ruolo di terzo e che doveva presupporre una prospettiva diversa di interpretazione del processo penale ponendo al centro l’interesse della comunità giuridica. Questa ultima unica detentrice della pretesa punitiva esercitata dal pubblico ministero quale rappresentante della comunità e dello Stato. Una prospettiva che doveva capovolgere i principi sui quali si fondava il processo inquisitorio e che avrebbe dovuto dare corso sin da allora ad una contestuale riforma dell’ordinamento giudiziario, con una demarcazione di ruoli e funzioni ben precisa. Una distinzione che avrebbe dovuto affermare la superiorità di un giudice che assicura l’equilibrio dello svolgimento del rito, attribuire alla pubblica accusa l’esercizio dell’azione penale per un diritto violato e alla difesa riconoscere il diritto di pari dignità investigativa e processuale rispetto all’accusa. Un’accusa che dovrebbe stare in giudizio in perfetto equilibrio con la difesa, sganciata da ogni senso di appartenenza con un giudice che è terzo, ovvero testimone della formazione della prova in dibattimento e responsabile del rito senza condividere con alcuno l’appartenenza ad un ordine di categoria.
 
Il secondo aspetto è il reclutamento. Di fatto l’ingresso in carriera prescinde da ogni ruolo e affida ad un unico concorso la selezione dei futuri magistrati senza richiedere, sin dall’inizio, percorsi e prove diverse per le diverse funzioni che andranno ad essere esercitate con un passaggio in futuro dal penale al civile, dalla funzione giudicante a quella requirente senza valutare la capacità del singolo magistrato in relazione ai compiti. Ora, di fronte a ciò non sarebbero percorribili proposte di riforma che lascerebbero inalterata l’unicità del concorso. E questo, dal momento che si dovrebbero trovare formule idonee a gestire il cambiamento di funzione e individuare l’ambito territoriale di esercizio che non potrebbe più essere quello del precedente distretto di servizio.
 
D’altra parte, in un sistema processuale fondato su una ripartizione netta di funzioni, e garantito nell’equilibrio da una figura super partes nel ruolo giudicante, non si potrebbe concepire alcuna proposta di passaggio orizzontale fra funzioni dal momento che lo sviluppo delle competenze relative ad ogni singola funzione dovrebbe essere verticale. Ciò perché l’accesso diretto ad una delle due carriere consentirebbe una maggiore professionalità esaltando le abilità di ogni singolo magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni, disancorandolo da un ordinamento giudiziario che dovrebbe essere, se necessario, valido solo per il ruolo giudicante. Nell’ipotesi di una separazione certa delle funzioni, e di fronte ad una reale indipendenza, non ci sarebbero nemmeno ragioni per esprimere timori da direttorio.
 
Infatti, nessuna garanzia potrebbe essere compressa dal momento che diritto di difesa e modalità di produzione della prova ammessa sarebbero, comunque, garantiti da procedimenti di garanzia preliminari al dibattimento stesso e mantenuti rito durante con le parti processuali, accusa e difesa, pienamente paritarie nelle prerogative processuali riconosciute. Circa poi l’autonomia ed indipendenza delle due funzioni processuali, giudicante e requirente, si realizzerebbero nel riconoscere ad entrambe le funzioni la possibilità di essere autogovernate in un sistema a doppio Csm evitando, in questo senso, quella che molti chiamano il rischio di una deriva poliziesca del Pubblico Ministero. Vi è poi un terzo aspetto di carattere generale, ma non per questo meno importante, tutt’altro.
 
La giustizia non può funzionare se il rapporto tra il cittadino e le regole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità e dal dubbio sulla ragionevolezza del rispetto della norma, dall’incertezza della sanzione per chi la vìola. La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il senso della legalità, se non attribuiscono credibilità ad un modello di garanzia della pacifica convivenza e di tutela dei diritti allorquando considerano il rispetto delle norme faticoso e cercano i modi per violarle. Se questo è vero, ogni riforma possibile del rito e delle funzioni non può essere scritta prescindendo da una constatazione: l’ambiguità sempre più forte delle parole legge, legalità, regola. Se non si restituisce significato e valore a simili espressioni si rischia di far perdere ogni certezza sul senso della convivenza, sui limiti del singolo nel rispettare la libertà altrui, sui limiti di molti nel considerare la res pubblica un bene di tutti e non di pochi. Una sconsolante prospettiva che dimostrerebbe l’inesistenza di una matura civiltà giuridica, …meno che mai politica.

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