Ci sono momenti nella storia di un Paese, di un governo, di una società, che segnano il tempo presente, che impongono una riflessione sulle scelte che incidono sul futuro delle giovani generazioni, sul loro diritto di sentirsi protagoniste e sul rispetto delle loro aspettative. Ci sono anche momenti di confronto che non possono essere ritenuti secondari nella vita e che chiedono a chi governa di superare immobilismi dovuti ad un sentimento di minor istituzionalizzazione della vita civile, tenendo fede ai princìpi di una società democratica, composita, pluralista e oggi anche multiculturale e multirazziale. L’esperienza francese degli ultimi anni aveva già messo in discussione un concetto di democrazia che si riteneva consolidato all’interno di un modello fondato sulle opportunità di accesso alla società e all’università.
La realtà francese aveva anche visto la crisi di un modello di democrazia reale, tanto reale quanto distante dai cittadini, che valutava l’azione dell’esecutivo solo attraverso filtri politici che permettevano una percezione indiretta, limitata perché spesso prodotta dagli animi, ed interessi, dei leader politici e non frutto della comprensione dei sentimenti dei giovani. Quei sentimenti sui quali si dovrebbe costruire il rapporto di fiducia tra cittadini molto particolari e classe politica, tra il potere e i giovani, tra il presente e il futuro del Paese. Oggi non è solo la risposta ad una riforma motivata da ragioni diverse, di razionalizzazione della spesa pubblica, dell’impiego dei docenti, della disciplina, organizzazione e condotta dei corsi che è in discussione.
Ciò che anima la risposta degli studenti, al di là del dato politico, è il senso di abbandono, di poca attenzione da parte delle istituzioni e che demotiva i più deboli perché costantemente in ansia nel tentativo di dare un senso al proprio futuro, superando l’obiettiva ipotesi di una dilatazione dei tempi di ingresso nella società del fare e dell’essere. Sono, in realtà, queste le ragioni evidenti del distacco generazionale che si misura nell’aspettativa di un diritto allo studio che resta l’unico baluardo per sentirsi protagonisti di una società il cui sistema imprenditoriale e finanziario è imploso perché fondato solo sulla ricerca del successo rapido. Un successo misurabile soprattutto economicamente, sulla semplificazione intellettuale e non sulle abilità personali, sul saper fare e sulla conoscenza.
Oggi, ciò che dovrebbe far riflettere non sono le proteste su una riforma possibile, più o meno necessaria, sulle possibilità di risparmio o sulla difesa di uno status quo ritenuto acquisito, ma è la possibilità di trovare, di fronte ad una crisi economica da recessione in agguato, gli antidoti ad una recessione intellettuale. Istruzione e ricerca sono, entrambi, fattori decisivi per rendere credibile una politica di crescita e possibile una riorganizzazione dei modelli produttivi e dei servizi. Oggi, in realtà, di fronte ad un confronto così chiaro, ad una chiara crisi dei modelli politici neoliberisti occidentali, le ragioni sociali del lavoro, l’utilità del capitale e del reddito quali fattori di crescita e non di competizione individualista o di mortificazione collettivista, sono tornati a far parlare di sé sull’onda della crisi di un’economia di sistema deregolamentata e certamente molto lontana dall’utilità sociale del capitale e degli investimenti sui quali si è costruita la proposta di democrazia occidentale.
La sconfitta di modelli economici sempre più finanziari e non reali in termini di produttività rischia di coinvolgere, e travolgere, anche chi dovrà gestire in futuro il cambiamento del modello e dei presupposti sui quali costruire una società più etica. Se non si comprende questo diventa difficile riuscire a chiarire quale futuro si vuole realizzare per restituire dinamismo al sistema-Paese nelle sue varie componenti e quale ruolo attribuire ai veri protagonisti, le giovani generazioni, consentendo loro di partecipare al cambiamento. Ogni confusione sui termini di azione rischia solo di aumentare uno scontro diffuso dove l’incomprensione sulle reazioni possibili dei nostri studenti determinerà un confine sempre più sottile tra quel senso comune del rispetto della legalità che deve prevalere e la reazione ad una legalità non interiorizzata perché non percepita quale espressione di una pari onestà intellettuale rivolta a promuovere opportunità concrete di crescita.
Possibilità di sentirsi parte di un mondo reale, concreto, per i giovani e non destinatari di provvisorie, se non virtuali, verità o di riforme non comprese perché non ne è dichiarato il fine sociale delle stesse che va ben oltre il semplice, seppur importante, aspetto economico. Ciò che spinge i giovani da sempre ad agire in una società immobile è, in genere, la volontà di affrancarsi da un senso del vuoto e del definitivo che non favorisce modelli e politiche di crescita e di cambiamento negli assetti della società. Per questo, al di là delle parvenze, il risultato di una scelta non condivisa nelle riforme delle nostre scuole e delle nostre università è il rischio di alimentare la crescita di un disincanto sempre più evidente e allontanare i giovani, di destra o di sinistra che siano, dall’assumersi la responsabilità di essere attori fondamentali del futuro di una nazione.
Ciò che anima la risposta degli studenti, al di là del dato politico, è il senso di abbandono, di poca attenzione da parte delle istituzioni e che demotiva i più deboli perché costantemente in ansia nel tentativo di dare un senso al proprio futuro, superando l’obiettiva ipotesi di una dilatazione dei tempi di ingresso nella società del fare e dell’essere. Sono, in realtà, queste le ragioni evidenti del distacco generazionale che si misura nell’aspettativa di un diritto allo studio che resta l’unico baluardo per sentirsi protagonisti di una società il cui sistema imprenditoriale e finanziario è imploso perché fondato solo sulla ricerca del successo rapido. Un successo misurabile soprattutto economicamente, sulla semplificazione intellettuale e non sulle abilità personali, sul saper fare e sulla conoscenza.
Oggi, ciò che dovrebbe far riflettere non sono le proteste su una riforma possibile, più o meno necessaria, sulle possibilità di risparmio o sulla difesa di uno status quo ritenuto acquisito, ma è la possibilità di trovare, di fronte ad una crisi economica da recessione in agguato, gli antidoti ad una recessione intellettuale. Istruzione e ricerca sono, entrambi, fattori decisivi per rendere credibile una politica di crescita e possibile una riorganizzazione dei modelli produttivi e dei servizi. Oggi, in realtà, di fronte ad un confronto così chiaro, ad una chiara crisi dei modelli politici neoliberisti occidentali, le ragioni sociali del lavoro, l’utilità del capitale e del reddito quali fattori di crescita e non di competizione individualista o di mortificazione collettivista, sono tornati a far parlare di sé sull’onda della crisi di un’economia di sistema deregolamentata e certamente molto lontana dall’utilità sociale del capitale e degli investimenti sui quali si è costruita la proposta di democrazia occidentale.
La sconfitta di modelli economici sempre più finanziari e non reali in termini di produttività rischia di coinvolgere, e travolgere, anche chi dovrà gestire in futuro il cambiamento del modello e dei presupposti sui quali costruire una società più etica. Se non si comprende questo diventa difficile riuscire a chiarire quale futuro si vuole realizzare per restituire dinamismo al sistema-Paese nelle sue varie componenti e quale ruolo attribuire ai veri protagonisti, le giovani generazioni, consentendo loro di partecipare al cambiamento. Ogni confusione sui termini di azione rischia solo di aumentare uno scontro diffuso dove l’incomprensione sulle reazioni possibili dei nostri studenti determinerà un confine sempre più sottile tra quel senso comune del rispetto della legalità che deve prevalere e la reazione ad una legalità non interiorizzata perché non percepita quale espressione di una pari onestà intellettuale rivolta a promuovere opportunità concrete di crescita.
Possibilità di sentirsi parte di un mondo reale, concreto, per i giovani e non destinatari di provvisorie, se non virtuali, verità o di riforme non comprese perché non ne è dichiarato il fine sociale delle stesse che va ben oltre il semplice, seppur importante, aspetto economico. Ciò che spinge i giovani da sempre ad agire in una società immobile è, in genere, la volontà di affrancarsi da un senso del vuoto e del definitivo che non favorisce modelli e politiche di crescita e di cambiamento negli assetti della società. Per questo, al di là delle parvenze, il risultato di una scelta non condivisa nelle riforme delle nostre scuole e delle nostre università è il rischio di alimentare la crescita di un disincanto sempre più evidente e allontanare i giovani, di destra o di sinistra che siano, dall’assumersi la responsabilità di essere attori fondamentali del futuro di una nazione.