Giovanni Paolo non c’è più. Una parte fondamentale della storia della Chiesa contemporanea e del nuovo secolo, ma soprattutto dell’Occidente e del suo modo di gestire delicati rapporti politici con un Est europeo ancorato sino a ieri ai paradigmi del comunismo, scompare con Carol Wojtyla.
Giovanni Paolo II non recita più l’Angelus. Ci ha lasciati con il fiato sospeso per giorni. Ha coinvolto con il suo lento soffrire il mondo intero, quasi come se gli fosse riconosciuto il valore di un impegno non solo religioso ma sociale e perché no, politico. Giovanni Paolo II rappresenta il Pontefice che non ci sarebbe mai stato se la storia non avesse costretto il Vaticano a rivedere la propria collocazione internazionale scegliendo di essere protagonista di una perestrojka religiosa che solo chi conosceva nell’intimo il regime comunista avrebbe potuto realizzare. Un Papa che ha assunto il ruolo di riproporre un’istituzione antica in un momento storico di indubbia incertezza, di evidente difficoltà politica negli equilibri mondiali. Un Papa che nelle difficoltà di una malattia non ha derogato a impegnarsi in un confronto intellettuale, oltre che religioso, in un mondo in cui regna un’insicurezza evidente sul destino dell’umanità.
Un Pontefice non italiano, poco romano in verità anche se molto devoto a una cristianità cattolica da esserne la migliore espressione gerarchica in una Polonia terra di mezzo, fra cattolicesimo romano, valori occidentali e l’ortodossia scismatica in un Oriente europeo secolarizzato sino a ieri nella formula sovietica. Giovanni Paolo II è il Papa che, da polacco, meglio di chiunque altro avrebbe potuto interpretare un ruolo chiave valorizzando la Chiesa come soggetto politico in un momento storico che avrebbe mutato la configurazione delle relazioni internazionali e continentali. Giovanni Paolo II non ha rappresentato in sé solo il Vaticano per quello che noi intendiamo, ovvero come sede della Chiesa apostolica romana. Ha rappresentato l’archetipo dell’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto.
La fine di un mondo bipolare, la conclusione dell’utopia di un comunismo illiberale e secolare che non poteva essere affrontata se non da chi ha subito la secolarizzazione della propria cultura e della quale, religione compresa, sentiva la necessità di restituirne l’identità come simbolo tangibile di una libertà ritrovata, di una dignità di popolo che anche nell’unicità di fede si riconosce come tale. In un momento in cui la destra ultraconservatrice statunitense caratterizzata da una volontà messianica di riconvertire il mondo su logiche di potenza - di per sé contraddette dall’essere la più evidente espressione di società multirazziale e multiconfessionale al mondo - Giovanni Paolo II ha interpretato al meglio il suo ruolo di leader di una Chiesa universale, itinerante, scevra da formalismi e formalità che ne hanno impedito la modernizzazione nonostante i tentativi post-conciliari guardando il mondo dal di dentro e non dall’alto di un potere.
Una religiosità politica espressa da un Papa intellettuale e missionario, capace e consapevole della necessità di esprimere in concetti semplici valori per tutti. Un Papa che ha scelto, nonostante il suo ruolo, la militanza del leader, superando un orizzonte romano da sempre distante dalla gente se non nell’eccezionalità di un altro pontificato, quello di Giovanni XXIII. Giovanni Paolo II ha cercato di creare una geografia universale di un cristianesimo cattolico senza confini, guardando al futuro, cercando di rimuovere ogni possibile barriera che ne avrebbe potuto ostacolare la sopravvivenza, tutelandone la sua unità e cercando di riportare verso la centralità della fede le visioni sino a ieri scismatiche, oggi concepite solo come una diversità possibile che può far convivere e coesistere i cristiani nella loro originaria casa comune.
Di fronte a Giovanni Paolo II non ci si sente né cattolici, né riformisti. Ci si sente soprattutto cristiani. Uomini e donne riuniti in nome di un Gesù che è l’espressione migliore di una libertà di fede che nel rispetto e nella tolleranza reciproca ricercano la via del dialogo e del confronto. I pellegrinaggi itineranti perseguiti al di là di ogni sforzo e possibilità fisica hanno dimostrato quanto Giovanni Paolo II abbia cercato di spostare verso la predicazione la prossimità di una religione che si era distaccata dal suo popolo per rinchiudersi, nonostante le buone intenzioni conciliari, in un sistema di potere fine a se stesso. Un potere che, erodendosi su personalismi e dottrine di corrente, spesso distanti concretamente dalle difficoltà del popolo, ha favorito il proliferare delle sette, del fondamentalismo islamico, dei culti nuovi, alternativi, nati da un bisogno di spiritualità abbandonata da chi della spiritualità avrebbe dovuto farne il motivo principale di avvicinamento a una popolazione insicura.
Giovanni Paolo II ha rappresentato la migliore sintesi fra religione e politica, liberando la religiosità da ogni vincolo ideologico e dogmatico superando, pur difendendo i valori fondamentali, la visione latina di un papato non sempre prossimo al popolo nelle sue forme, nelle sue espressioni più immediate. Ha vissuto le contraddizioni fra Est e Ovest, confrontando la religiosità sociale con le democrazie popolari e il capitalismo, affidando alla dimensione religiosa il compito di traghettare la rinascita dell’individuo in un’ottica nuova di partecipazione, di impegno, di ricostruzione di un neoumanesimo al di là di ogni logica secolare. Una proposta forte di impegno diretto, senza rispondere a logiche di ingerenza, al punto da pretendere di affermare il ruolo della cristianità nella formulazione politica di un modello istituzionale come l’Unione europea.
Un Pontefice che non si è proposto solo come una semplice guida spirituale, ma un vero leader per le generazioni più giovani. Un Papa che ha compreso, nella transizione verso un nuovo mondo, che solo una riappropriazione del cuore popolare della Chiesa poteva garantire la vitalità del modello cristiano, senza evitare il confronto con l’altro, superando le ambiguità di un futuro e di una modernità che attribuisce all’Islam la scena politica principale oggi nel mondo. Giovanni Paolo II ha rappresentato, che piaccia o meno riconoscerlo come tale, anche una guida politica. Non di colore, ma di intenzione.
Un Pontefice che non ha rinunciato a farsi coinvolgere nei grandi eventi mondiali sottraendo al dominio del clero secolare la guida strategica del cattolicesimo della nuova era. L’eredità che Papa Wojtila lascerà sarà un’eredità difficile. Difficile perché si dovrà decidere se continuare verso l’avvicinamento al popolo di una fede distaccatasi per ragioni di potere o ridefinire un formalismo rituale dietro il quale nascondere le paure di nuovi impegni chiari nelle scelte dell’umanità. Giovani Paolo II ha compreso che l’uomo cerca continuamente delle risposte e che le risposte alle domande sulla sua esistenza non possono nascondersi dietro ideologiche ritualità ma devono andare ben oltre l’esteriorità purpurea. Devono andare verso una Chiesa militante che partecipa alla vita, senza giudicarla aprioristicamente, senza mortificarla in virtù di dogmi assoluti, spesso incomprensibili. Una Chiesa che può anche interpretare come non assoluti valori e princìpi secondo una fede umanizzabile, limitando i danni di un esacerbante fondamentalismo islamico e una proliferazione di culti e di false religioni che tendono a colmare i vuoti di senso pratico che la Chiesa non riempie, abbandonando frange di marginalità e di disperazione, salvo ricordarsene solo all’occorrenza.
Giovanni Paolo II non è stato, e malgrado chi ne ha deciso l’investitura, un Papa italiano, un Papa della tradizione. Giovanni Paolo II ha segnato un papato storico, unico, capace di mutare il corso della storia, di offrire un’opportunità di crescita alla Chiesa Cattolica. Oggi la responsabilità di non distruggere un così alto profilo ricade ancora una volta sulle stanze romane, sulle indicazioni di un potere che si è secolarizzato da sé. Una responsabilità di non ridefinire in termini di potere una religiosità che nel potere ha scritto le sue più controverse pagine di una storia millenaria iniziata nella predicazione tra la gente e non nelle formalità rituali o nei salotti porporati, ma nella semplicità di Gesù: un Dio per tutti e non per pochi.