(Con)Vivere con il terrore
Bin Laden, in fondo, spettro della debole coscienza occidentale, ha strumentalizzato molto bene quelle paure che segnano l’insicurezza delle comunità occidentali trasformando tali percezioni e il non senso della storia che le ha pervase negli ultimi decenni in un fattore di potenza. Alla paura del futuro degli occidentali, presi dalle possibilità di consumo e dalle imprese finanziarie, ha contrapposto la certezza di un modello organizzativo e di una cultura senza tempo e senso della storia, costringendo l’Occidente a confrontarsi su un piano dialettico - politico, religioso e militare - dove tutto si ferma alla scelta tra una vittoria, difficile e complessa, e la non-sconfitta. Così l’11 settembre non è stato solo un ground zero per la politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti bensì di tutto l’Occidente. L’11 settembre ha dimostrato quanto siano determinanti gli equilibri politici e non solo delle periferie del mondo al punto tale da mettere in discussione sia le dottrine fondate sulla potenza che sull’equilibrio. L’Occidente riprende coscienza, drammaticamente, della consapevolezza di avere un ruolo nell’arena mondiale e che le relazioni internazionali diventeranno d’ora in poi sempre più competitive verso più attori. Così come la violenza non sarà solo verticale ma orizzontale, cioè supererà ogni confine possibile dilatandosi man mano con il suo alone di sofferenza in più comunità. Finisce l’era della guerra tradizionale. Inizia il tempo di una guerra contro un nemico apparente che applica una minaccia a più dimensioni e si organizza su modelli di perfetta asimmetricità nel tentativo di far impantanare le forze regolari in una vera e propria non-guerra L’Occidente paga il prezzo di una concezione delle relazioni internazionali ferma alle politiche di area precedenti il 1989. Ma il mondo nel frattempo era già cambiato.