"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Iraq, politica e terrore

La seconda guerra in Iraq, il dopoguerra, la catena di attentati da Madrid a Beslan, i sequestri degli operatori civili occidentali o degli operai nepalesi, hanno dimostrato come il concetto di aggressione e di uso della forza secondo criteri di legittimità difensiva presentano un modo diverso di intendere i rapporti fra gli Stati e fra gli individui. Un modo diverso di concepire il confronto con conseguenze che non sfuggono alla sensibilità dell’intera comunità internazionale. È mutata la percezione strategica dei rapporti di forza in un clima di incertezza giuridica che indebolisce quel minimo assetto internazionale conquistato all’interno delle vecchie logiche di potenza. È mutato il ruolo del diritto che perde di centralità e il valore della vita si svuota di fronte a una violenza senza controllo. Siamo di fronte a una contrazione politica degli effetti delle scelte per la quale valori etici, morali, religiosi, non sempre condivisibili per l’altro, determinano uno spostamento sostanziale dei termini relazionali così radicale da mettere tutto in discussione: interessi di potenza, fattori e modalità dei rapporti di causa ed effetto fra soggetti non omogenei che si confrontano, rispetto della dignità umana. Non solo.

L’escalation di violenza terroristica e l’incapacità di realizzare un ordine all’interno dello Stato iracheno, come nell’Asia Centrale o nelle regioni del Caucaso, dimostrano quanto la crisi sia proprio prevalentemente politica. La condotta delle operazioni militari non può in sé sostenere lo sforzo di ripristinare l’architettura istituzionale di uno Stato. La possibilità di ridefinire in termini di assetti interni una comunità risiede nella preesistenza di una cultura politico-istituzionale sulla quale costruire un minimo di organizzazione amministrativa e di gestione del potere attraverso un equilibrio condiviso all’interno della stessa comunità. La scarsa valutazione degli effetti del conflitto, quanto l’indisponibilità di una leadership da sostituire al vecchio regime nell’immediatezza e per conto della quale, magari, condurre e giustificare la stessa guerra contro il regime di Saddam Hussein, si sono dimostrati gli errori più evidenti commessi dalla coalizione angloamericana. Un errore politico tanto quanto l’aver sottovalutato la dimensione politica del fenomeno terroristico e la capacità dello stesso di inserirsi, nel tentativo di colmarli, nei vuoti di potere che sia in Medio Oriente quanto in Asia Centrale e nell’area transcaucasica e transcaspica si sono determinati dal 1989 a oggi.

Il dopoguerra iracheno, la totale anarchia all’interno della quale si muovono le stesse truppe di una coalizione priva di una strategia definita, l’incapacità politica di guidare un paese da parte di una classe dirigente - inventata ad hoc ma priva di una propria radice culturale tranne l’offerta sciita dell’Islam - e la sopravvivenza del Baath disegnano un quadro confuso dove proprio all’indecisione strategica si somma la confusione tattica con le conseguenze che ogni giorno si osservano. Il vero nodo centrale della crisi, quindi, non è se il terrorismo sia più o meno virulento o più o meno vulnerabile nel medio termine: questa è una storia antica. La realtà è se si è in grado di proporre alternative politiche capaci di riempire vuoti di potere senza ricorrere al solo uso della potenza, riconducendo l’uso della forza in un quadro di legittimità giuridica che ne sostiene anche gli effetti più spiacevoli.

Il ricorso alla guerra preventiva, la possibilità di attaccare il proprio nemico ovunque si ritenga possa trovarsi, prescindendo da qualunque coinvolgimento della comunità internazionale rientra anche questo nella stessa logica del terrore. Creare confusione, sovvertire un ordine giuridico, minare gli assetti istituzionali della stessa comunità internazionale significa esasperare l’incapacità di una potenza di reagire, costringendola e legittimandola ad andare al di là di ogni equilibrio condiviso, affermando una propria dimensione unilaterale. Ciò che sfugge al prevalere della logica militare dello scontro è la dimensione politica dell’avversario. Il terrorismo è un fenomeno politico. Va sconfitto quindi sul terreno politico. Attraverso politiche che riducano gli spazi sociali all’interno dei quali il terrorismo si alimenta sia ideologicamente che materialmente. La strategia dei sequestri, comunque la si vorrà interpretare, colpisce chi crede in una soluzione politica della crisi, a chi crede nel tentativo di offrire un modello diverso di crescita sociale antinomico rispetto alla proposta offerta dal terrorismo radicale.

Per questo, se un confronto militare è più facilmente rivendicabile e giustificabile nelle dinamiche di azione e reazione, la competitività politica di modelli diversi di crescita e organizzazione sociale è molto più pericolosa per chi volesse affermare disegni unilaterali di potere. Perché sia il terrorismo che l’azione politica offerta in opposizione mirano a conquistare l’unico obiettivo che potrà dare equilibrio e stabilità a un nuovo soggetto istituzionale: disporre del consenso delle comunità. Ed è la conquista di ciò che sfugge ancora all’Occidente e che doveva rappresentare, al contrario, il principale scopo nel decidere di condurre una guerra giusta, internazionalmente giuridicamente giusta.

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